Il “problema dei problemi” di Internet

di | 25 Marzo 22

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Se usi internet devi dire grazie alla pubblicità.

Se leggi newsletter interessanti, trovi informazioni utili su Google, commenti l’attualità su Twitter o parli con gli amici su Instagram lo devi soprattutto a quei fastidiosissimi banner, alle finestre pop-up e ai pre-roll prima dei video che guardi.

No, non sono impazzito: lascia che ti spieghi.

Nel corso dell’ultimo ventennio gli utilizzatori di internet sono passati da circa 800 milioni a quasi 5 miliardi.

In questo periodo – trainato dall’esplosione dei social e conosciuto come web2.0, o web2 – il nostro uso della rete è cambiato profondamente, diventando molto più intenso e pervasivo.

Tutto ciò non sarebbe stato immaginabile se non in un ecosistema ad accesso libero e gratuito retto, sostanzialmente, sulla pubblicità.

Il modello del “prodotto sei tu”, infatti, ha permesso a servizi e piattaforme di crescere a dismisura la propria base di utenti.

Di aprirsi ai più giovani, ai meno tecnologici, ai cittadini dei paesi in via di sviluppo, riducendo al minimo le frizioni.

Se i servizi offerti da Myspace, MSN, Yahoo! o Facebook fossero stati a pagamento, nessuno vi si sarebbe probabilmente nemmeno iscritto.

Invece, l’internet dell’attenzione ha spalancato l’accesso a contenuti, informazione e servizi a chiunque nel mondo.

Ma allora – dirai tu – non è vero che la pubblicità ha contribuito a creare un internet sempre più polarizzato, sempre più dis-umano, sempre meno amico dell’utente?

Certo che è così: il modello basato sulla pubblicità ha indubbiamente peggiorato la nostra esperienza di internet.

Pixel e javascript hanno rallentato le nostre navigazioni, facendoci perdere tempo.

Banner, notifiche e pop-up hanno deviato la nostra attenzione, facendoci perdere concentrazione.

Cookie e tracciamenti hanno spiato le nostre abitudini, facendoci perdere il controllo dei nostri dati.

Ma la mia teoria è che la pubblicità sia colpevole di questa situazione tanto quanto della caduta di Troia il colpevole sia stato il cavallo di legno.

Il problema della pubblicità online, infatti, non è la pubblicità in sé.

Il problema della pubblicità online è il progressivo disallineamento degli incentivi che si è andato a creare nell’evoluzione del web2.

La pubblicità online era nata con la promessa di risolvere due problemi fondamentali.

Da un lato, quella di essere più efficace per gli sponsor (a differenza della carta, sarebbe stato possibile misurare il tasso di conversione di un’inserzione).

Dall’altro, quella di offrire un servizio migliore agli utenti (a differenza della televisione, prodotti e offerte sarebbero create su misura e recapitate al momento giusto).

Con il passare del tempo, tuttavia, entrambe queste promesse si sono rivelate illusioni.

E mentre “pubblicità online” diventava sinonimo di sorveglianza – quella che Ethan Zuckerman già nel 2014 definiva il “vero modello di business” del web2 – il guadagno vero si concentrava nelle mani di poche piattaforme in grado di accentrare quantità immense di dati.

Contemporaneamente, il valore della pubblicità crollava per tutti gli altri. Anche per gli editori, che sceglievano di mettere a rischio i loro asset più preziosi – la fiducia, la qualità, la user experience – nella speranza di erogare qualche banner in più.

Così, a mano a mano che gli interessi commerciali diventavano più stringenti e soffocanti, gli incentivi per chi comprava, chi distribuiva e chi riceveva la pubblicità erano sempre più in conflitto gli uni con gli altri.

Non a caso il web2 è noto come l’adversarial web, il web conflittuale.

Il paradosso del successo

La maggior parte delle tecnologie, dei social e dei giornali nasce con buone intenzioni.

All’inizio si è mossi dalla genuina volontà di risolvere un problema o di creare un’opportunità per qualcuno.

Poi però le dinamiche cambiano: l’aumentare della complessità e degli interessi in gioco porta a un progressivo deterioramento della promessa iniziale.

Gli incentivi per chi vende e chi compra diventano sempre più conflittuali: al guadagno di qualcuno corrisponde la perdita di qualcun altro. Non si cresce più “insieme a”, ma “a discapito di”.

Soprattutto quando si trovano sotto pressione, media company e piattaforme tendono ad agire nel proprio interesse (o di quello dei loro investitori) e non più in quello dei loro utenti o dei loro lettori — i cui incentivi e bisogni restano sostanzialmente invariati nel tempo.

Anche alcuni problemi dell’informazione online – come le fake news, il crollo della fiducia o il collasso del contesto – sono causati, principalmente, da un disallineamento degli incentivi.

Il consulente Alessandro De Zanche, esperto di modelli di monetizzazione e di adtech, ha scritto che “uno dei principali problemi commessi dagli editori negli ultimi quindici anni è stato quello di trasferire il controllo della monetizzazione a soggetti che ritenevano l’ingombro pubblicitario – e non il contenuto giornalistico – ‘il prodotto’, tradendo la loro stessa natura e la ragione primaria per cui le audience visitavano i siti dei giornali”.

Se avessi facoltà di coniare una nuova legge di Murphy, suonerebbe più o meno così (inserisci il nome di una piattaforma o di una testata a piacimento):

Quanto più ________________ avrà successo, tanto più si allontanerà dai reali bisogni dei suoi utenti, e quindi dal fattore che ha generato il suo successo, causando la sua stessa rovina.

Il paradosso di Substack

Un caso di disallineamento degli incentivi è, secondo alcuni, quello cui sta andando incontro Substack.

La celebre piattaforma di newsletter due settimane fa ha lanciato la sua app per iOS, Substack Reader.

Nata con la promessa di offrire un’esperienza di lettura migliore ai lettori, secondo i critici il vero intento dell’app è però un altro: fornire all’azienda uno strumento di distribuzione più controllato e controllabile rispetto alle caselle di posta.

Grazie all’app, infatti, Substack avrebbe a disposizione migliori dati sui suoi utenti, maggiori opportunità di promozione e di cross-selling, perfino la possibilità di introdurre algoritmi di personalizzazione.

Per Casey Newton, che su Substack pubblica la sua newsletter Platformer, la nuova app avrà l’effetto collaterale di “rendere le newsletter di Substack simili a dei widget, scadenti e intercambiabili: una pila infinita di cose cui iscriversi che finirà per sovraccaricare i lettori con volumi enormi”.

In effetti, se le newsletter di Substack diventassero dei post all’interno di un feed, quale sarebbe la differenza con – chessò – Medium? Dove finirebbe la possibilità di accedere a uno spazio personale e intimo come l’inbox della propria casella email, che è la fortuna di tante di queste pubblicazioni periodiche?

“I rapporti di forza potrebbero cambiare: lettori e autori verrebbero penalizzati a vantaggio della piattaforma stessa,” scrive ancora Newton. “L’ultima volta che è successa una cosa simile è stato con Facebook e Twitter”. E non è finita bene.

Verso il web “allineato”

Il web2 ha dimostrato tutta la sua disfunzionalità ed evidenziato la necessità di un cambio di paradigma.

Se questo cambio di paradigma sarà proprio il web3 – che i promotori definiscono il web allineato – staremo a vedere.

È difficile immaginare oggi l’avvento di un mondo digitale in cui i creator, i finanziatori, i distributori e i fruitori beneficeranno di una nuova “pace sociale” basata su un’improvvisa comunione di intenti — anche perché le dinamiche del web2 sono profondamente radicate nei modelli di business di internet, ed estirparle non sarà facile.

Però, come dice lo stesso Ethan Zuckerman, “è più facile lamentarsi della tecnologia che proporre soluzioni”.

E quindi ben vengano idee e proposte. Anche quelle più utopiche. Sperando che non finiscano vittima di qualche vecchia o nuova legge di Murphy.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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