Uno non vale uno

di | 11 Febbraio 2022

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All’inizio di febbraio, come forse avrai letto, il New York Times ha annunciato il superamento di quota 10 milioni — un traguardo raggiunto con un paio d’anni di anticipo rispetto agli obiettivi.

Bravi, bravissimi, bis.

Ma ci sono un paio di considerazioni da fare.

La prima è che la straordinaria cifra – i 10 milioni – non si riferisce al numero di abbonati al Times, ma al numero di abbonamenti ai prodotti del Times.

Come intuirai, si tratta di una differenza sostanziale.

A fine dicembre, quando gli abbonamenti attivi erano 8.8 milioni, gli abbonati erano 7.6, ovvero il 15% in meno.

Questo significa in parole povere che, ogni 6 persone abbonate, una paga contemporaneamente due subscription a due diversi prodotti a marchio Times — a scelta tra il giornale di carta, quello online, oppure ai verticali tematici CookingGames e Wirecutter.

Non è questa una cattiva notizia per il Times, affatto: gli utenti che detengono abbonamenti multipli sono sempre quelli più affezionati al brand e saranno gli ultimi ad andarsene. Ma resta importante non confondere – e questo errore l’ho commesso senz’altro anche io – il numero di ‘abbonamenti’ con quello degli ‘abbonati’.

La seconda considerazione è che il profitto medio generato al Times dai suoi subscriber è diminuito negli ultimi cinque anni, con punte del -45%.

Come ha calcolato Lelio Simi sulla sua Mediastorml’ARPPU del Times (Average Revenue Per Paying User, calcolata dividendo le entrate ricorrenti mensili per il numero di abbonati attivi) è passata dai 23 dollari del 2017 ai 12,9 dollari del 2021.

“Al Times per incrementare la base abbonati, in questi anni, hanno puntato molto su proporre prezzi competitivi”, ha scritto Simi. “Questo ha permesso di incrementare i volumi in maniera enorme […] a scapito però, ovviamente, del valore medio dei singoli abbonamenti”.

Oltre alle promozioni, aggiungo io, va considerato un altro fattore: e cioè che i prodotti ‘collaterali’ del Times (cucina, cruciverba e tecnologia) hanno dei prezzi di abbonamento molto più bassi rispetto alle notizie.

Cooking e Games, per esempio, costano 25 euro l’anno. Wirecutter 40.

Per fare un raffronto, NYT Digital – l’accesso illimitato al sito – costa, a prezzo pieno, 96 euro in Europa e 221 dollari negli USA.

È chiaro che se ogni abbonato al prodotto core news vale quasi come quattro abbonati ai cruciverba, distinguere è fondamentale.

Anche perché, nell’ultimo trimestre, la maggioranza dei nuovi abbonamenti (55%) è stato generato proprio dai prodotti collaterali e non dall’offerta giornalistica in senso stretto.

Tra quei 10 milioni di abbonamenti, insomma, ci sono delle notevoli differenze di valore: uno non vale uno.

Il saturimetro delle subscription

Tornano in mente le parole di Luca Sofri, che una settimana fa proprio su Ellissi mi spiegava perché avesse deciso di non divulgare il numero totale degli abbonati al Post.

“I numeri comunicati da alcuni siti di news vengono usati spesso a scopo promozionale. Altrettanto spesso sono poco chiari,” argomentava il direttore della testata milanese.

“Per carità, è legittimo annunciare ciò che si vuole, ma la maggior parte delle cifre che circolano non sono certificate. I numeri che vengono diffusi includono tanti abbonati in fase di trial o che hanno approfittato di promozioni a prezzi stracciati.”

Per quanto avrei preferito scucirgli il dato – tornerò alla carica, Luca lo sa – ho trovato condivisibile la sua risposta, anche perché tocca una serie di temi magari un po’ nerd, ma importanti per capire dove stia andando il business dei media.

Per misurare il successo di un’azienda subscription-based ci sono tre dati centrali. 

  • Il numero di subscriber attivi totali
  • Il ricavo medio per utente pagante o per abbonato (ARPPU/ARPS), di cui ti ho parlato sopra; 
  • Il customer lifetime value (CLTV), ovvero il valore generato dall’utente nel corso della sua lifetime, del suo ciclo di vita come cliente dell’azienda.

Di solito quando un giornale o una piattaforma annunciano il proprio numero di subscriber, quasi mai rivelano la propria ARPPU, il che rende pressoché impossibile capire il reale valore di ciascun abbonato – pardon, abbonamento – attivo.

Questo rende arduo capire anche chi tra Netflix, Amazon, Disney e compagnia stia vincendo la sanguinosa ‘guerra dello streaming’.

Il numero totale dei subscriber, dunque, è ancora un indicatore dello stato di salute di una media company o di una piattaforma video?

Sì, ma omette un pezzo fondamentale della storia, visto che un +25% di abbonati non corrisponde mai a un +25% di profitti.

Se il numero dei subscriber attivi è il termometro posto all’ingresso del supermercato, l’ARPPU è il saturimetro: ci dice quanto ossigeno c’è in un dato momento nel sangue di una azienda.

Per questa ragione è di gran lunga il dato più importante: non solo perché ci aiuta nella diagnosi, ma anche perché ci permette di prevedere meglio cosa succederà in futuro.

Una ARPPU più elevata significa infatti che l’utente è entrato ‘a maturazione’ — dopo il periodo di prova ha deciso di rinnovare a prezzo pieno, e magari ha speso soldi extra in altri prodotti della stessa azienda.

Magari ha regalato un abbonamento a qualche amico, oppure ha comprato dei prodotti collaterali.

Gli utenti dalla ARPPU più elevata sono quelli con maggiore probabilità di rinnovare il proprio abbonamento, e saranno quelli che negli anni genereranno la CLTV più alta per l’azienda.

Questi superutenti, che occupano la cima della piramide, vanno adeguatamente coccolati e protetti dagli assalti della concorrenza.

Lo sa bene The Atlantic, che recentemente ha rimesso in ordine le proprie priorità.

Nel 2019 il magazine americano aveva annunciato di voler raggiungere 1 milione di abbonati totali tra stampa e digitale entro la fine del 2022.

In una recente intervista su Press Gazette, però, il ceo Nicholas Thompson ha ammesso che “quell’annuncio fu probabilmente un’esagerazione, basata sulla crescita esponenziale dell’audience che abbiamo visto nell’era di Trump”.

“Dubito che raggiungeremo un milione di abbonati entro la fine di quest’anno”, ha detto.

Thompson ha anche annunciato un cambio di rotta: il numero totale di abbonati non sarà più la metrica principale per l’Atlantic.

“Mi interessa meno arrivare a un milione di abbonati di quanto mi interessi raggiungere i 50 milioni di ricavi”, ha spiegato.

“Noi chiediamo circa 50 dollari ad abbonato. Potremmo arrivare a un milione di abbonati piuttosto facilmente — potremmo offrire prezzi stracciatissimi, no?”.

“Ma se il nostro obiettivo si concentrasse solo sul numero totale di subscriber, questo potrebbe danneggiarci. La mia speranza è che arriveremo a 50 milioni di ricavi dai lettori, se non quest’anno, il prossimo”.

È meglio avere meno abbonati con una ARPPU più elevata, che tantissimi abbonati con una ARPPU bassa.

Che poi è il motivo per cui The Athletic è stato venduto a un prezzo molto inferiore alla richiesta iniziale: i suoi tanti abbonati valgono, in media, piuttosto poco, poiché acquisiti tramite fortissimi sconti.

E quindi?

Uno dei rischi più grandi per una testata online è che i suoi lettori si abituino a sottoscrivere abbonamenti che costano poco.

Rialzare una ARPPU bassa infatti non è mai facile: giustificare un aumento dei prezzi è un’operazione delicata che rischia di innervosire il cliente.

Le media company che acquisiscono migliaia di abbonati attraverso una strategia ‘a rete da pesca’, come The Athletic, lo mettono in conto.

“Iniziamo a prenderli, e poi speriamo che restino”.

Ma la verità è che raramente chi arriva con determinate condizioni poi ne accetta di nuove: gli acquisti di impulso, oltre a essere difficili da replicare, non sono il mattone giusto su cui costruire una relazione duratura con il brand.

Lo stesso comportamento si riscontra negli utenti che attivano l’abbonamento a una piattaforma di streaming spinti dalla curiosità verso la ‘serie del momento’.

Secondo un recente studio, degli iscritti da record conquistati da Disney+ grazie al musical Hamilton o da HBO Max grazie a Wonder Woman 1984, metà sono svaniti dopo sei mesi.

Un’alternativa migliore all’innalzamento dei prezzi è forse quella di arricchire il proprio parco prodotti generando nuove fonti di ricavo e differenziando l’offerta come ha fatto il Times.

Persino il ‘monolite’ Netflix ha recentemente lanciato uno store online, un magazine dedicato ai fan (Tudum) e inserito i giochi all’interno della propria app mobile.

Ma perché questo avvenga è necessaria innanzitutto una cosa: che gli utenti si fidino dell’azienda e si appassionino al suo brand.

E per raggiungere entrambe queste mete non esiste una scorciatoia.

Alla prossima Ellissi
Valerio

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