Il potere degli estremi

di | 12 Marzo 2021

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“Nel mio lavoro devo leggere una grande mole di documenti. Quasi tutti sono troppo lunghi. Questo mi fa perdere tempo, poiché spreco energia per trovare i concetti essenziali”.

In un memorandum inviato il 9 agosto 1940 e intitolato semplicemente ‘Brevità’, Winston Churchill implorava i suoi collaboratori di usare chiarezza e concisione nei loro briefing quotidiani.

Come per tutti noi, anche per l’ex Primo Ministro britannico il tempo era la risorsa più scarsa e preziosa. A maggior ragione, con una guerra alle porte.

“Cercate di elencare i punti chiave in una serie di paragrafi corti e senza fronzoli”, scriveva.

“Anziché inviare ogni volta un report completo, preparate un documento con i titoli principali, i quali potranno essere discussi a voce se necessario.”

E ancora: “Mettiamo fine all’utilizzo di frasi come queste: ‘È importante anche tenere a mente le seguenti considerazioni…’ o ‘Bisogna valutare altresì la possibilità di rendere effettivi…’.”

“Queste frasi confuse sono solo un riempitivo: possono essere eliminate completamente, o rimpiazzate da una singola parola. Non abbiate paura di usare espressioni corte, anche quando sono conversazionali.”

In sintesi, concludeva Churchill, “il risparmio di tempo sarà grande e la capacità di delineare i punti principali aiuterà la chiarezza di pensiero”.

Come sai, il digitale non ha grandi limiti di spazio. Può ospitare video che durano 596 ore o libri da 15000 pagine, in quantità pressoché infinite.

Tuttavia, il cloud non ci ha ancora donato la capacità di allungare il tempo a nostra disposizione.

Anche per questa ragione la brevità è importante. In particolare quando i contenuti a disposizione sono troppi. 

Non credo che Churchill avrebbe particolarmente apprezzato un mondo di reel, tweet e stories (o magari sì, chissà). 

Ma senz’altro sarebbe stato un fan di Axios o di Morning Brew, e del loro concetto di smart brevity applicato alle notizie.

La brevità, oggi, ha un grande valore. Questo perché, per la maggior parte, i contenuti online sono troppo lunghi.

Sui social, spiega uno studio del 2019, basta ridurre la lunghezza dei post (del 10-20%) per aumentare il valore percepito, e accrescere l’efficacia del messaggio.

Secondo un articolo del Financial Times, le persone di successo hanno una caratteristica in comune: scrivono email brevi.

Prendo in prestito le parole di Brian Morrissey, ex direttore di Digiday, che spiega molto bene il valore di essere succinti:

“Rimuovere il non-necessario per arrivare all’essenziale migliora il tuo prodotto, oltre a essere una forma di rispetto verso il pubblico. Far risparmiare tempo alle persone è sempre una buona strategia.”

Devo cercare la brevità a tutti i costi, quindi?

Non churchillizzarti così in fretta, no.

Si è letto tanto, in questi anni, della scarsa capacità di concentrazione causata dal digitale, soprattutto tra le “nuove” generazioni. Una critica rivolta prima ai millennial, e poi agli zeta.

Secondo uno dei ritornelli più diffusi, la nostra attenzione online è minore di quella di un pesce rosso: 8 secondi.

Questi dati sono tuttavia carta straccia, sia perché sono scientificamente deboli, sia perché analizzano il problema – secondo me – da una prospettiva sbagliata. 

L’attenzione digitale infatti non si è accorciata: si è frammentata. E questo è avvenuto, in primis, perché si sono frammentati i contenuti.

Questo non significa che ciò che è breve abbia sempre successo, o che tutto debba essere breve per averne. 

Anzi. Internet è pieno di contenuti lunghi che attirano engagement e attenzione.

I video di Rian Kaji, l’ottenne youtuber più ricco al mondo, non durano secondi, ma minuti.

Il podcast più famoso dell’etere, quello di Joe Rogan, viaggia a una media di 2 ore e 32 minuti a puntata.

Gli stream di Ninja, il gamer più seguito su Twitch, sforano abbondantemente le 10 ore.

Lo stesso vale anche per gli articoli longform. Questo bellissimo contenuto immersivo del Washington Post ha attratto un attention time medio di 18 minuti tra i lettori.

Succede anche in Italia, comunque: le lezioni di Alessandro Barbero, non certo mordi e fuggi, sono da tempo in cima alle classifiche di Spotify. 

E la pagina de Il Sole 24 Ore sui contagi da Covid-19, così come quella sui vaccini in tempo reale, registrano un tempo di permanenza medio stellare, ogni giorno.

Ovviamente, la lunghezza non può e non deve essere un attributo fine a se stesso. A regnare sono la qualità del contenuto e il servizio (l’esperienza) offerti al lettore.

La prolissità è un problema del giornalismo e non solo: non so te, ma io trovo che molti libri di business – pur interessanti – siano estremamente ripetitivi, e che ci mettano troppo per arrivare al punto.

Forse pubblicare un libro lungo è un segno implicito di conoscenza della materia? Se così fosse, sarebbe assurdo.

Non bisogna mai confondere il semplice tempo speso, che è una metrica passiva, con il vero engagement, che presuppone un’interazione attiva con il contenuto.

Il mito va sfatato anche al contrario. La brevità, infatti, è utile solo se riesce davvero a veicolare un valore.

Così come essere ‘brevi’ non significa necessariamente essere chiari, essere ‘lunghi’ non comporta necessariamente essere noiosi.

Convincersi che un contenuto debba essere lungo o corto a prescindere, insomma, è sbagliato.

L’importante è che avere chiaro che cosa porta maggiori benefici al nostro modello di business. 

Più tempo speso equivale a un maggiore ritorno economico? Aiuta nella creazione di un’abitudine virtuosa? Oppure è il risparmio di preziosi minuti a rappresentare un valore per il cliente finale?

Chi si è posto queste domande in modo giusto?

Quartz, la visionaria testata economica americana che ultimamente si sta riprendendo dopo anni difficili, su questo aveva ragione: le vie di mezzo, online, hanno sempre meno senso.

Già nel 2013 il fondatore del sito, Kevin Delaney, aveva messo al bando gli articoli di news di lunghezza media, quelli tra le 500 e le 800 parole.

La famosa “curva di Quartz” illustrava come i contenuti di maggior successo fossero quelli inferiori a 500 parole di lunghezza (compatti, dritti al punto, social-friendly), o superiori a 800 (come analisi e approfondimenti).

Nel mezzo, nella parte bassa della U, c’era tutto il resto del contenuto — quello che generava poco engagement.

Ancora oggi, tuttavia, i giornali online pubblicano soprattutto articoli di lunghezza intermedia, forse spaventati che il breve non sia sufficiente per veicolare il messaggio e che il lungo possa spaventare il lettore.

Una delle comunicatrici più efficaci, in questo caso, è la deputata americana Alexandria Ocasio-Cortez, capace di destreggiarsi meravigliosamente tra poderosi discorsi pubblici di novanta secondi e altrettanto efficaci dirette live di sei ore su Twitch.

Ocasio-Cortez, come Churchill, conosce le sue audience e sa come intercettarle.

Il tempo a nostra disposizione orienta le nostre scelte: in generale, è più facile ritagliarsi uno spazio da dedicare a contenuti molto brevi (quando si ha poco tempo) o molto lunghi (quando ci si vuole immergere in un tema che interessa), anziché un ‘tempo di mezzo’ che non è né carne né pesce.

Quello che è certo è che sempre di più, online, il formato è il messaggio.

Ti chiedo: come alterni brevità e lunghezza in quello che crei, e perché lo fai? Stai rispondendo davvero ai bisogni della tua audience?

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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