Cosa significa davvero “innovazione”? Di Web3, hype e distorsioni

di | 15 Luglio 2022

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Fino a un paio d’anni fa, Packy McCormick era un perfetto sconosciuto.

Allora 34enne, McCormick lavorava come manager in una startup di New York focalizzata sul mercato dello space-as-a-service — per dirla nel linguaggio degli umani: una catena di coworking.

Ma la sua vita in questi due anni è cambiata completamente.

Dopo essersi licenziato, infatti, McCormick – che non è un giornalista né aveva particolare esperienza con lo scrivere – ha deciso di lanciare una newsletter su Substack, dedicata al mondo della tecnologia e degli investimenti.

Nata all’inizio della pandemia, Not Boring è stata fin da subito un grande successo: oggi conta 140.000 iscritti, e McCormick si è ritrovato a essere una delle voci più seguite su criptovalute, blockchain e web3.

Su quei temi, infatti, il newyorkese è – come direbbero in America – particolarmente bullish. In sostanza, ci crede parecchio.

Qualche settimana fa, come spesso capita, McCormick è stato invitato a parlare delle possibili applicazioni pratiche del web3 da un web3-scettico, all’interno di un podcast.

Quando gli è stato chiesto di fare un esempio pratico di come la blockchain possa migliorare le nostre vite in futuro, però, il buon Packy si è infilato in un vicolo cieco.

Cercando di spiegare l’impatto positivo che gli smart contract avranno – in un futuro ipotetico – sull’acquisto di una casa, l’analista ha finito per contraddirsi, soccombendo alle domande dell’intervistatore.

L’esempio scelto (peraltro da lui stesso) sull’utilizzo della blockchain per l’erogazione dei mutui faceva acqua da tutte le prati.

Qualche giorno dopo Charlie Warzel, giornalista e autore di un’altra newsletter molto seguita sui temi tech (Galaxy Brain, ora pubblicata da The Atlantic) ha poi criticato il collega, in una puntata dedicata alla “fumosità” che circonda ancora il web3.

Il che, ovviamente, ha contribuito a generare un circo polemico, ben poco virtuoso, su Twitter.

“I’m an idiot”, ha scritto McCormick, che in una serie di tweet ha motivato la sua “scarsa performance” durante l’intervista con un problema di salute del figlio.

Oggi però non sono qui per parlarti di polemiche su Twitter, ma del concetto di innovazione, dell’hype che circonda la tecnologia, e del modo in cui se ne parla.

Il web3 è stato uno dei temi più discussi dell’anno scorso, e proprio alla fine del 2021 si è toccato il vertice massimo della curiosità online sul tema, oggi decisamente scemata.

Questo 2022 è cominciato sotto un’egida diversa: l’arrembante crisi economica causata da guerra e pandemia ha affossato il valore di tutte le aziende tech americane, mentre l’aria fredda del cosiddetto cripto inverno ha congelato l’entusiasmo attorno ai temi trattati da McCormick.

L’epica del web3 sembrerebbe oggi essere giunta al cosiddetto “fosso della disillusione”, illustrato da questo grafico dell’azienda di consulenza Gartner — uno dei tentativi più riusciti di teorizzare il ciclo dell’hype che circonda l’innovazione e il progresso tecnologico:

Nel 2021, come detto, abbiamo valicato il “picco delle aspettative esagerate” sul web3, seguendo una narrativa gonfiata soprattutto dai cripto-bros e dai grandi fondi di investimento.

La spirale negativa dell’economia ha però messo rapidamente a nudo i limiti di un modello – quello della terza iterazione di internet – ancora troppo teorico per poter dimostrare il proprio reale impatto sulle persone.

L’entusiasmo si è spento anche sui media che, nelle ultime settimane, hanno cambiato toni e approccio, pubblicando diversi articoli critici sul tema.

Il web3 è una “grande idea” di cui “nessuno sente il bisogno”, ha scritto per esempio Max Chafin su Bloomberg — chiedendosi come mai la Silicon Valley, “originariamente mossa da una fedeltà dogmatica ai bisogni degli utenti”, ha finito per innamorarsi di un progetto così aleatorio e finendo per, dice Chafin, “svendere internet alle cripto”.

Personalmente, credo che questo “innamoramento” sia stato causato da una serie di variabili: la finanziarizzazione estrema del mercato tecnologico, l’impatto accelerazionistico del sistema capitalista su un pianeta sempre più sofferente e fragile, l’endemia delle crisi.

Tutti questi fattori ci hanno spinto, dopo anni di grandi avanzamenti tecnologici, a un fisiologico periodo di rallentamento dell’innovazione.

Pensa alle app su cui trascorriamo buona parte delle nostre esistenze, per esempio.

Se le piattaforme social hanno stravolto le nostre vite, non lo hanno fatto tanto per la loro spinta innovativa a offrire soluzioni a problemi fondamentali, quanto piuttosto per la loro capacità di dirottare e risucchiare la nostra attenzione.

E la loro formula tecnologica – e questo vale sia per Facebook sia per Netflix – non solo non è così avveniristica, ma è anche replicabile da molti competitor con uno sforzo relativamente basso.

Distratti dall’hype

Come hanno scritto su Nieman Lab gli accademici Lee Vinsel e Jeffrey Funk, le piattaforme “non stanno rendendo le nostre vite più efficienti o aiutando l’economia a crescere più di tanto”.

In questo parziale stallo dell’innovazione, la blockchain e il web3 si sono inseriti come un elemento narrativo salvifico, come la nuova next big story da raccontare (e su cui discutere).

Con il risultato che, nel giro di pochi mesi, tale proposta – piuttosto radicale e in principio antitetica all’oligopolio corrente delle big tech – si è trasformata nel nuovo filone speculativo di cui le borse avevano bisogno. Un bel paradosso.

L’hype, come spiegano Vinsel e Funk, è progettato per darci l’impressione di un progresso produttivo sempre più veloce e florido — il che finisce per distrarci dai problemi economici fondamentali del nostro tempo, come quello delle disuguaglianze.

Tecnologie come gli algoritmi, per esempio, non remano nella stessa direzione dei suoi utilizzatori (noi): servono piuttosto a migliorare le trimestrali delle aziende che le sviluppano, e questo succede quasi sempre a discapito del nostro stesso benessere.

È evidente che qualcosa non va. C’è un profondo disallineamento di incentivi tra le aziende tech e i bisogni della nostra società.

Se ne parli, poi succede?

La “colpa” di tutto questo non è certo di McCormick e della sua newsletter, le cui lunghe analisi sono peraltro spesso brillanti e audaci.

Tuttavia, anche lui ha scelto di salire sulla giostra, creandosi un ruolo di primo piano all’interno di una narrazione che sembra costruita su un assioma piuttosto strambo: “Se ne parlo, poi succede”.

Ma l’innovazione è un processo più lento di quanto il ciclo dell’hype ci faccia sembrare, e viaggia su una strada piena di buche, tornanti e bruschi stop.

La finanziarizzazione del progresso vorrebbe sempre viaggiare a una velocità più alta di quella consentita, aumentando così il rischio di incidenti.

La verità è che non tutto è scalabile. E non tutto può crescere sempre.

Solo poche cose possono essere definite davvero “innovazione”. Quelle che lo sono, rispondono solitamente a un reale bisogno sociale e non solo a logiche aziendali — e scaturiscono da un processo collettivo.

In conclusione: il web 2.5

Hype a parte, il web3 – che a oggi è una teoria, non una tecnologia – non è tutto da buttare.

Come ho già raccontato, un web decentralizzato e tokenizzato potrebbe davvero avere un impatto interessante sul mondo dei media e del giornalismo e sui loro modelli di monetizzazione.

A oggi, però, credo che la vera “innovazione” del web3 finora sia stata quella di avviare una conversazione necessaria sul bisogno di trovare di un modello alternativo rispetto a quello attuale.

Un web più umano-centrico, in cui le persone possano controllare appieno i propri dati e la propria identità digitale; un web basato sulla condivisione del valore e sorretto da una filiera più equa per tutti.

Se questa innovazione poggerà o meno sulla blockchain, in fondo, non è così importante.

L’importante è che la nebbia del progresso a tutti i costi non nasconda alla nostra vista la necessità di immaginare prodotti e servizi alimentati più dai bisogni degli utenti che da quelli dei venture capitalist.

Anziché puntare tutto sul web3 – o al web5 di cui già parla Jack Dorsey – io mi accontenterei di cominciare a progettare un “web 2.5” che possa mettere in parziale discussione i modelli attuali e cercare di risolverne alcune problematiche.

Sarebbe già un primo traguardo, immaginare un internet migliore in un futuro più prossimo, con più concretezza e meno hype. Ci arriveremo? Tra quanto? Non ne ho idea. Di sicuro – e su questo McCormick ha ragione – sarà un viaggio tutt’altro che boring.

Alla prossima Ellissi
Valerio

 

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