Quanto vale una media company?
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Dieci milioni di dollari sono tanti o sono pochi? Dipende a chi chiedi.
Per Quartz, la testata di global business news venduta qualche giorno fa per una cifra simile, sono tanti e pochi allo stesso tempo.
Sono pochi, se pensiamo a una realtà che più volte è stata considerata il diamante grezzo dell’innovazione nei media.
Nei suoi dieci anni di vita, Quartz è stata infatti in grado di lanciare una delle newsletter più seguite al mondo, vincere premi giornalistici importanti e vendere pubblicità digitale a un CPM invidiabile (tra i 75 e i 90 dollari).
Ma dieci milioni potrebbero anche sembrare tanti, se guardiamo alla situazione economica in cui versa l’azienda.
Negli ultimi cinque anni, mentre la sua proprietà cambiava per ben tre volte, gli introiti della testata americana sono scesi da $30 milioni (2016) a $11 milioni (2021).
Anche il numero di dipendenti è diminuito verticalmente (da 270 a 100) ma, nonostante i continui tagli, l’azienda ha chiuso il bilancio 2021 con un rosso record da $6.9 milioni.
Eppure l’inizio era stato promettente. Per un po’, la spinta innovativa dei suoi fondatori (Kevin Delaney e Zach Seward su tutti) ha beneficiato di una visione a lungo raggio e di una rapidità di esecuzione invidiabile.
A un certo punto però Quartz ha smesso di brillare, ed è rimasta invischiata nel suo stesso miele — tra una certa tendenza all’autocompiacimento e l’incapacità di mantenere costante il suo appeal verso gli inserzionisti.
Uno dei simboli di questa ascesa e declino è stata senz’altro Quartz Brief, l’app che spiegava le news attraverso un chatbot, e cui nel 2016 il giornale Fast Company dedicò uno dei titoli più divertenti di sempre.
Le tempistiche di alcune scelte sono state sbagliate – il lancio della membership, avvenuto nel 2019, era in ritardo rispetto ai competitor – e a poco a poco anche i formati innovativi e i contenuti più distintivi sono diventati uguali a quelli di tutti gli altri.
Così il chiacchiericcio intorno a Quartz si è affievolito, e anche gli investitori hanno messo di crederci.
Nessuno ha saputo riassumere meglio la traiettoria di Quartz come il giornalista Josh Sternberg: “Quartz was a great idea, executed very well, and then not as much”. Fine.
Quartz è stata vittima del suo stesso hype cycle, come accade alla maggior parte delle media company che vengono bollate come “innovative” e che finiscono per invecchiare più rapidamente delle altre.
La spinta dirompente dura il tempo che un competitor se ne accorga, o che il vento del mercato cambi direzione, scuotendo le basi su cui era stata costruita la promessa di un ipotetico “modello alternativo”.
Di modelli alternativi nei media, però, ce ne sono ben pochi — ti dirò: probabilmente nessuno. Non esistono scorciatoie.
E l’innovazione tecnologica è spesso una facciata da mostrare a inserzionisti e investitori.
Quando leggo di musei nel metaverso che offrono “opere impalpabili” fruibili in “modalità impensabili”, mi chiedo: ma di tutto questo, al pubblico, frega davvero qualcosa?
Altro equivoco: pensare che le media company siano tech company.
Non è così. Nemmeno per Netflix – che ha sicuramente innovato il modo in cui fruiamo le nostre serie preferite (un esempio che amo è l’invenzione del tasto “Skip Intro”) – la tecnologia rappresenta un elemento differenziante che guida la scelta del consumatore nell’abbonarsi alla piattaforma.
Quel fattore trainante, semmai, è il contenuto.
Alberto Puliafito, co-fondatore di Slow News e mio socio in Supercerchio, mi ha scritto ieri su Whatsapp una frase che ho trovato molto centrata:
“Sono dieci anni, forse qualcosa di più, che vedo un’ossessiva ricerca di soluzioni tecnologiche per il giornalismo. E mi sembra che si giri intorno al vero punto. Che è: l’unico modo per ‘salvare’ il giornalismo è fare il giornalismo. Separando nettamente quel che non lo è da quello che invece lo è.”
Certo, certo, anche il resto conta, lo so: se il tuo sito non funziona, se la tua strategia di distribuzione è sbagliata o se non conosci il tuo pubblico sarà dura avere successo.
Ma l’avere un contenuto di valore resta imprescindibile: se il servizio giornalistico che offri è di scarsa qualità o non riesce ad avere un impatto su una determinata comunità di persone, tutto il resto crolla.
Ma quindi, come si calcola il valore di una media company?
Dal punto di vista strettamente finanziario, gli investitori calcolano la cifra moltiplicando di 8 o 10 volte il valore dell’EBITDA (gli utili annuali dell’azienda al lordo di interessi, imposte, svalutazione e ammortamenti).
Tuttavia i media, come sappiamo bene, non sono una classica cash cow. Non si fonda un giornale per fare soldi; non nel 2022, almeno. E quindi?
In un settore volatile e difficile come quello dell’informazione, i fattori che incidono sulla valutazione di una media company sono anche altri. Riguardano non solo l’azienda e le sue performance, ma anche il livello di partecipazione del pubblico al progetto. O almeno dovrebbero.
Ho provato a fare un piccolo (e incompleto, metto le mani avanti) esercizio: elencare i fattori fondamentali cui un gruppo di investitori o compratori dovrebbe guardare prima di spendere i propri soldi in una ipotetica media company.
Ispirandomi anche a questa analisi di Troy Young, ne ho identificati principalmente tre: Presa sull’audience, Posizione dominante, Marginalità moltiplicabile.
Analizziamoli insieme, uno alla volta.
1. Presa sull’audience
Chi investe, secondo me, dovrebbe misurare quanto l’audience consideri il servizio giornalistico che gli viene offerto come un valore aggiunto nella propria vita.
Per farlo dovrebbe analizzare soprattutto due metriche fondamentali come l’engagement (quanto partecipano alla conversazione?) e la fiducia (quanto si fidano di quel brand?), con un occhio anche all’evoluzione di questi segnali nel tempo.
La domanda tornasole è questa: quell’audience continuerebbe a seguire la media company anche su un canale diverso da quello usuale? In altre parole: la testata è in grado di garantire presa sulla sua audience anche di fronte agli scossoni delle piattaforme e del mercato?
2. Posizione dominante
Chi investe dovrebbe tenere in considerazione un secondo aspetto: l’unicità dell’offerta di quella specifica media company rispetto al mercato che la circonda, oltre alla sua capacità di mantenere una posizione dominante sui competitor.
Cercando di capire essenzialmente due cose:
a) se i contenuti, i volti e le expertise che la media company offre al suo pubblico siano davvero distintivi e sufficientemente difficili da replicare;
b) se i dati accumulati a disposizione della media company permettano un vantaggio competitivo reale (su questo, di solito, i progetti B2B sono avvantaggiati).
La domanda tornasole è la seguente: gli asset proprietari della media company (contenuti, dati, persone) possono essere replicati facilmente da qualcun altro? Se sì, quanto rapidamente?
3. Marginalità moltiplicabile
Infine, e dico l’ovvio, chi investe dovrebbe valutare in modo approfondito il modello di business della testata in questione.
Modelli come quello della testata-agenzia (VICE e BuzzFeed, per esempio) hanno dimostrato grandi difficoltà di scalabilità: grandi clienti, grandi progetti, e margini piccoli.
Gli utili di produzione, in particolare, dovrebbero essere moltiplicabili in base all’aumentare della Posizione dominante e della Presa sull’audience: in alcuni casi, nei media, assistiamo al contrario — situazioni in cui il “potere” logora i modelli di business di chi ce l’ha.
In questo caso, la domanda tornasole è: quali unità di ricavi potrebbero beneficiare di un effetto moltiplicatore proporzionale alla crescita della media company stessa?
Come ho già detto, si tratta di una mappatura incompleta, ci sono sicuramente altri fattori rilevanti. Ma all’incrocio tra questi tre cerchi, forse, c’è la risposta alla domanda “Dieci milioni sono tanti o sono pochi?”.
Quali sono, secondo te, gli altri elementi fondamentali per capire il valore di mercato di un giornale? Parliamone, dai.
Valerio
Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.
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