L’idea geniale che non salverà i giornali

di | 15 Dicembre 2022

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C’era una volta una piattaforma di micropagamenti che prometteva di rivoluzionare la nostra esperienza delle news.

Era il 2014 e Blendle – questo il nome della startup – si era messa in testa di raccogliere il meglio del giornalismo internazionale e di venderlo pezzo per pezzo, storia per storia.

Anziché costringere i lettori ad abbonarsi a tutti gli articoli di una testata, la piattaforma dava infatti agli utenti la possibilità di acquistare solo i contenuti che ritenevano veramente interessanti.

Il tutto a un costo, almeno in teoria, micro: per leggere un articolo si spendevano tra i 10 e i 40 centesimi di euro e c’era persino la modalità “soddisfatti o rimborsati”.

Il prezzo veniva fissato dagli editori – tra cui figuravano New York TimesWall Street Journal ed Economist – che in cambio tenevano per sé il 70% dei ricavi.

Il progetto tuttavia non ha attecchito, ottenendo scarsi risultati.

Così Blendle ha dapprima rinunciato ai suoi piani internazionali, e poi ha cambiato modello, sostituendo i micropagamenti con la formula dell’abbonamento e finendo per annacquare la sua proposta iniziale.

Non è finita benissimo: nel 2020 l’azienda è stata svenduta a un gruppo francese e il suo ceo si è dimesso.

Per capire che cosa è andato storto, però, dobbiamo partire dall’inizio; e, in particolare, dall’idea che aveva ispirato i fondatori del progetto.

 

L’iTunes delle news

All’inizio del millennio il mercato discografico entrò in crisi, minacciato dal calo delle vendite e dal diffondersi della pirateria, vero e proprio spauracchio.

Per tamponare le perdite le etichette discografiche avevano deciso di penalizzare la vendita dei singoli, benché molto apprezzati dal pubblico, in favore degli album, decisamente più redditizi.

Era evidente che alle major non importasse granché di che cosa preferissero gli ascoltatori. Il loro messaggio a questi ultimi, nemmeno troppo velato, suonava all’incirca così:

“Ciao! Vuoi davvero ascoltare quel brano da tre minuti e mezzo che tanto ti piace? Ok, beccati questo doppio cd rilegato in cartone a 29 euro e cuccati tutte le b-side messe lì solo per aumentare il prezzo sull’etichetta.”

La strategia conservativa delle etichette discografiche venne sfidata, nel 2003, dalla nascita dell’iTunes Store.

Il nuovo marketplace targato Apple, che permetteva a chiunque di acquistare brani in formato digitale al prezzo medio di 99 centesimi, fu un successo improvviso.

Solo nella settimana di lancio venne scaricato oltre un milione di brani.

Ma più dei numeri in sé, iTunes contribuì a sfatare un mito.

E cioè che la pirateria non fosse la fine della musica, come molti annunciavano, né che ci eravamo improvvisamente trasformati tutti in una banda di ladri.

Stavamo, semplicemente, chiedendo aiuto: volevamo una user experience diversa e migliore di quella offerta dai CD e dal formato-album.

Il digitale ce la stava iniziando a fornire.

Questione di fiducia

Blendle si era ispirata tantissimo alla piattaforma di Apple.

Nel suo primo pitch agli investitori la startup si definiva proprio così, l’iTunes della stampa.

L’idea di fondo, se vogliamo, era lungimirante e contemporanea.

Ci parlava della frammentazione dei contenuti sui feed dei social, del minore attaccamento delle persone ai brand giornalistici, della personalizzazione come chiave per la sostenibilità economica.

Ma allora che cosa è andato storto?

Perché l’ascesa di Blendle si è arrestata e i micropagamenti nel giornalismo non sono mai decollati?

Secondo me ci sono due motivazioni principali.

La prima: perché il giornalismo e la musica sono due mondi diversi.

Per sostenere un giornale abbiamo bisogno di costruire un rapporto di fiducia con esso. E per costruire quel rapporto abbiamo bisogno di conoscere a fondo l’identità e i valori di quel giornale, e riconoscerci in essi.

Dell’etichetta discografica invece ci frega poco o nulla: è poco più di un logo sul retro di un cd. Il nostro legame è con l’artista, non con il marchio*. Lo vediamo anche dal fatto che oggi, su Spotify o YouTube, i nomi delle etichette sono praticamente invisibili.

È per questa stessa ragione che ci abboniamo a un giornale, ma non ci abboneremmo mai alla piattaforma di streaming di una singola label.

La seconda motivazione, invece, è legata al modo in cui funzionano i micropagamenti.

Per i lettori dover pagare ogni singola volta è faticoso, e l’impressione è quella di non avere mai sotto controllo le proprie spese.

Inoltre, quanto sarebbe un prezzo giusto per un articolo di giornale?

Se un album costa 20€ e un giornale in edicola 2€, un articolo dovrebbe costare al massimo 0,10€, 0,15€.

È evidente che stanti queste cifre, per raggiungere una soglia critica di introiti sufficiente, una testata dovrebbe vendere milioni di articoli al mese. Una missione impossibile.

Se i prezzi dei singoli articoli venissero alzati, al contrario, pure i lettori interessati scapperebbero: chi pagherebbe 1€ o 2€ per leggere un articolo?

Di micropagamenti si è tornati a parlare in questi giorni grazie a Post, una nuova piattaforma che si descrive come un luogo dove trovare “persone vere, notizie vere e conversazioni civili”.

Ovviamente, Post è già stata etichettata come possibile alternativa a Twitter.

{A questo proposito, mi permetto un piccolo inciso: penso che a furia di cercare possibili alternative a Twitter, e poi possibili alternative alternative alle prime alternative, finiremo per restare tuttə su Twitter. O no?}

Detto questo, io mi sono fatto un account.

Su Post sì possono condividere articoli di diverse testate e commentarli. E, in alcuni casi, anche acquistarli.

Per comprare un articolo si spendono dei Points, la currency interna della piattaforma, che possono essere investiti anche per ricompensare il lavoro di singole autrici e singoli creator.

Proprio come avveniva su Blendle, i giornali partecipanti prendono una fetta delle revenue.

Ma perché Post dovrebbe riuscire dove Blendle ha fallito?

Bella domanda. E infatti, credo, difficilmente ci riuscirà.

La caratteristica principale che differenzia Post rispetto a Blendle è la sua componente social. Che ok, può essere utile: se la community che ti costruisci è valida scoprirai un sacco di articoli interessanti da acquistare. Ma può bastare?

Sospetto di no.

Così come sospetto che a fare resistenza saranno ancora una volta gli editori, poco interessati a margini di profitto così bassi, e men che meno a spezzettare la propria offerta di contenuti in centinaia di micro-frammenti sul cui posizionamento commerciale avrebbero pochissimo controllo.

Fare esperienze migliori

Lo sappiamo bene.

I mille giardini recintati di internet (leggi: paywall) non generano felicità negli utenti, costretti a pagare troppi servizi per ottenere ciò che vogliono.

È per questo che Spotify, con il suo modello di abbonamento a soglia unica (col premium si accede a una library che soddisferebbe i gusti del 99% degli esseri umani), ha funzionato così bene.

Tuttavia, se l’esistenza di una iTunes per i giornali è difficile da rendere sostenibile, l’idea di una Spotify per i giornali sarebbe sicuramente irrealizzabile.

Significherebbe per le testate rinunciare al proprio marchio e al proprio rapporto con i lettori. Diventare, in ultima essenza, produttori di contenuti per una piattaforma terza.

C’è una cosa che però i giornali potrebbero imparare da iTunes e da Spotify.

Ovvero che la user experience è un elemento sempre più centrale e prioritario nei bisogni degli utenti, soprattutto di quelli che pagano.

Bisogna offrire loro un’esperienza soddisfacente e senza frizioni.

E bisogna sapergli fornire una “playlist” di contenuti interessanti da consumare ogni giorno.

Contenuti che magari, come una canzone che ci piace, ci aiutano a farci stare bene.

Alla prossima Ellissi
Valerio

*Piccolo inciso per gli amici musicofili: qui parlo di etichette major, è ovvio che nel mondo delle etichette indipendenti quel legame ci sia eccome.

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