Se tutto è un token
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Sulla sua newsletter Platformer, qualche mese fa, Casey Newton ha scritto una cosa illuminante.
“Il problema delle cripto è che sono una tecnologia in cerca di un problema”.
Lavorando come consulente strategico, e passando buona parte del mio tempo ad aiutare le aziende a superare gli ostacoli di internet, posso confermare: là fuori è pieno di soluzioni a problemi che non esistono.
La banale verità è che, anche nel digitale, ogni storia di successo è una questione di domanda e offerta — di user needs che esistono e di servizi che li soddisfano.
E questi servizi, in qualche caso, sono tecnologie. Ma non sempre.
Questo vale anche nel business dei media, dove qualcosa si è rotto ormai tempo fa.
La pubblicità online non è più in grado di pagare gli stipendi dei giornalisti, e altre forze (come la creator economy) stanno modificando le dinamiche di produzione e distribuzione dei contenuti digitali, nonché il modo in cui ci informiamo.
Così nell’ultimo anno mi è stato chiesto più volte se i token, le DAO e la blockchain possano davvero contribuire a risolvere, almeno in parte, i problemi dei giornali.
Se possano diventare un modello alternativo – più giusto, più equo, più trasparente, più remunerativo – per garantire valore all’intera filiera della produzione dei contenuti.
Se, in breve, quella struttura di strutture che è il web3 rientri nella categoria dei problem seeker oppure in quella dei problem solver.
Oggi cercherò di rispondere a questa domanda — o almeno ci proverò. Cominciando da quello che sta già succedendo all’intersezione tra media, cripto e blockchain.
Carini, coccolosi e tokenizzati
Sul canale Discord di PubDAO, qualche giorno fa, gli utenti Alexxx e Brownryg discutevano se pubblicare un articolo su SnapShot.org, un sistema di votazione che molte crypto-community utilizzano per effettuare sondaggi sui propri membri.
PubDAO è “un’agenzia di stampa collaborativa” specializzata sul tema delle cripto, che si descrive come un esperimento che ambisce a costruire “una Associated Press decentralizzata”.
In realtà, al momento, non è molto più che un forum in cui utenti discutono le notizie del giorno, si assegnano i compiti, e realizzano contenuti distribuiti su una pagina Medium, oltre che su una serie di blog e testate che parlano di cripto associate al progetto — da cui la definizione di “agenzia”.
Gli utenti di PubDAO (un mix di giornalisti e appassionati) ottengono in cambio dei token che gli permettono di avere voce in capitolo sulla produzione editoriale della piattaforma.
Tra i fondatori di PubDAO c’è Decrypt, un giornale online tra i più seguiti sul tema cripto, e che lo scorso marzo ha lanciato anche un reader token — una moneta virtuale che i lettori guadagnano in base al numero di articoli letti e condivisi sull’app.
I token guadagnati possono essere poi spesi in due modi: acquistando una serie limitata di NFT creati in collaborazione con alcuni artisti oppure indirizzando tramite una votazione il lavoro della redazione di Decrypt.
Il modello è simile a quello di Mirror, di cui ti ho già parlato in passato.
La differenza però è che Mirror non si pone come un giornale, quanto piuttosto come una piattaforma, dove chiunque può creare una propria pubblicazione, emettere token, spartire i cripto-proventi con i propri collaboratori e la propria community.
Un altro modello è quello di Relevant, un aggregatore di notizie curate da una community su vari temi (politica, società, giustizia, ambiente) dove sono gli upvote e i downvote degli utenti a promuovere i contenuti di maggiore qualità.
Su Relevant tuttavia non conta la quantità di upvote ricevuti da un post, come avviene per esempio su Reddit, ma la loro qualità: quanto gli utenti con il reputation score più alto ‘sostengono’ un certo articolo, chi ha lasciato un upvote guadagna dei coin che entrano a fare parte del suo wallet.
Di proprietà e partecipazione
Come hai visto da questi esempi, oggi la maggior parte dei progetti attivi a cavallo tra giornalismo e web3 si basa su un meccanismo di ricompense che gira intorno ai governance token e ai social token.
I governance token, benché non regolamentati legalmente, sono simili al concetto tradizionale di equity: chi ne possiede riceve in cambio un pezzettino di ownership del prodotto su cui ha investito.
A seconda di quanto c’è scritto sullo smart contract che la persona ha “firmato” acquistando i token, può anche ricevere privilegi aggiuntivi, tra cui la redistribuzione di eventuali dividendi — possibilità, va detto, assai remota.
I social token, detti anche creator coin o community token, sono delle valute che creator, influencer, artisti e brand – chiunque abbia dei follower o dei fan, insomma – possono utilizzare per monetizzare una community o per finanziare un progetto.
In questo caso non si possiede nulla, ma si ottiene qualcosa in cambio. Di solito, la possibilità di accedere a qualche privilegio esclusivo.
Per esempio, se un giorno decidessi di creare degli $ELLISSI, potrei ricompensare i possessori con una serie di benefit: chiedergli aiuto per decidere l’argomento della prossima settimana, permettergli di parlare (con me e tra loro) in un gruppo privato su Discord o di accedere a un evento targato Ellissi.
Ma è proprio qui che arriviamo al cuore del problema, alla domanda delle domande.
Non è che di tutti ‘sti token, in fondo, potrei fare tranquillamente a meno?
Non ci sono già delle soluzioni e delle tecnologie – perfettamente funzionali e funzionanti – che ci permettono di raggiungere gli stessi obiettivi?
Cercare il problema
Come avrai capito, almeno nel mondo dei media, i token oggi sono sostanzialmente utilizzati in due modi: per raccogliere fondi legati a un progetto o un obiettivo comune, oppure per stimolare la partecipazione a una community, riducendo le distanze tra creator e fan, tra brand e consumatori.
Accesso, partecipazione, monetizzazione: la membership tokenizzata oggi somiglia ancora tanto a un cerbero che unisce un crowdfunding (la raccolta), un paywall (la scarsità di accesso) e una tessera fedeltà del benzinaio (l’emissione di ricompense).
Per ora, inoltre, la tecnologia usata non pare davvero influire sul grado di innovazione dei progetti editoriali tokenizzati: a volte sembra di rivedere l’infausto modello platisher di Forbes e HuffPost, mentre le piattaforme di pubblicazione assomigliano a dei Medium appoggiati sul web3 e gestiti tramite concorsi di popolarità.
Inoltre, chi vuole raccogliere soldi per sostenere una causa, un’idea imprenditoriale o un progetto editoriale ha già tante soluzioni a disposizione, facilmente accessibili e per tutti i gusti: Mamacrowd, Kickstarter, Patreon, Steady, Pico, Indiegogo, GoFundMe, Produzioni dal Basso… e potrei proseguire per giorni.
Davvero quindi il web3, i token e la blockchain non fanno nessuna differenza? Be’, no. Non esattamente.
Una differenza sostanziale è questa: al contrario di un abbonamento tradizionale i token, che non sono infiniti (ogni soggetto emettitore ne fissa un tetto massimo), crescono di valore alla crescita della domanda.
Per questo chi compra per primo i token di qualcosa potrebbe vedere il proprio patrimonio teorico diventare più fruttifero, nel caso l’esperimento abbia successo.
A quel punto, i token potrebbero anche sviluppare un proprio valore di mercato. Potrebbero essere scambiati con altri token e criptovalute oppure riscattati (con relativo guadagno). Un po’ come succede ai primi dipendenti di una startup di successo al momento della quotazione in borsa.
E vedo almeno un altro paio di applicazioni interessanti.
La prima: accogliere investimenti partecipati tramite token, almeno in una fase iniziale, può accelerare la partenza di un progetto contribuendo a validarne il product market fit.
La seconda: soprattutto nel caso dei governance token, anche solo il fatto di condividere la proprietà di qualcosa può diventare un potente fattore aggregante per una community di investitori.
Ma ci sono anche diversi ‘contro’ da tenere a mente. E non sono pochi.
● Il gap digitale. L’idea di vincolare la raccolta fondi di un progetto all’acquisto di token sulla blockchain riduce il possibile numero di partecipanti. Quante persone oggi, in Italia, dispongono di un wallet su MetaMask?
● Il valore di mercato. Il valore dei token è totalmente speculativo e slegato dal mercato at large, che poi è quello che fissa i prezzi. Un giorno potrò usare token per acquistare beni e servizi “altri” rispetto al progetto in cui ho investito?
● Il limbo legislativo. Ok, le regole sono fatte per essere cambiate — resta il fatto che oggi strumenti di questo tipo operano in un’area grigia dal punto di vista legale. Quando le cripto diventeranno ufficialmente riconosciute ovunque, non c’è il rischio che i DAO diventino semplicemente delle SpA e il Web3 un indice di borsa?
● L’effetto comportamentale. Come ha detto Molly White, curatrice del blog Web3 Is Going Just Great, quando la partecipazione a una community è alimentata dalla possibilità di ottenere un guadagno concreto, cambia anche il modo in cui le persone si comportano. “Quando qualcosa diventa ‘monetizzabile’ le dinamiche cambiano enormemente. Lo abbiamo visto accadere nei giochi play-to-earn, dove le persone hanno iniziato a fare cose completamente diverse nel momento in cui sono stati introdotti degli incentivi monetari”.
Per concludere: il mondo del web3 e delle cripto è tanto affascinante quanto fumoso.
Se stai pensando di sperimentare in questo ambito, cerca di capire soprattutto una cosa: qual è il valore aggiunto che una tokenizzazione dell’offerta porterebbe al tuo progetto?
Se non trovi una risposta, il rischio concreto è che tu ti stia affidando semplicemente a una tecnologia alla ricerca di un problema.
Quando magari la soluzione migliore esiste già, e sta da tutt’altra parte.
Valerio
Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.
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