Smettere di essere statue

di | 22 Ottobre 2021

👋

Ciao, stai leggendo Ellissi,
la newsletter settimanale
di Valerio Bassan su media
e digitale.

Arriva ogni due venerdì,
è gratis, e puoi riceverla
anche tu
.

🟡 Per iscriverti clicca qui.

In un vecchio TED Talk, Amanda Palmer – artista poliedrica, musicista e cantante – parlando della sua band, i Dresden Dolls, disse una cosa che mi colpì moltissimo:

“Abbiamo iniziato a chiedere alle persone di aiutarci e di unirsi a noi, e ne abbiamo fatto un’arte”.

Nel suo discorso, datato 2013 e intitolato The art of asking, Palmer rifletteva sull’importanza di costruire una connessione tra artista e fan – anche economica – come antidoto alle fluttuazioni e allo “strozzinaggio” dell’industria discografica.

Rinunciare agli intermediari e adottare un approccio più diretto era per lei tutt’altro che una novità.

Dopo gli studi, per cinque anni, Palmer si era guadagnata da vivere come artista di strada in Massachusetts, indossando un costume nuziale e salendo in piedi su una scatola. Si faceva chiamare The Eight Foot Bride, la ‘sposa alta due metri e mezzo’.

Restava perfettamente immobile per decine di minuti, lo sguardo fisso su un punto di fronte a sé. Quando i passanti si fermavano per lasciarle un’offerta, si inchinava e donava loro un fiore in segno di riconoscenza.

Nei giorni più fortunati, riusciva a guadagnare fino a 60 o 70 dollari.

A un certo punto, quando Palmer aveva circa 25 anni, la musica iniziò a bastarle per pagare le bollette.

Nel 2003 il disco di debutto dei Dresden Dolls, trainato dal singolo Coin-Operated Boy, divenne un successo planetario.

“Ho potuto smettere di essere una statua”, scherzò sul palco di TED.

“Ma non volevo perdere questo senso di connessione con le persone, mi piaceva troppo”.

L’arte di chiedere

Così, prima di suonare in una città, i Dresden Dolls contattavano alcuni musicisti locali, scoperti quasi sempre tramite il passaparola alimentato dai loro fan.

A queste band offrivano la possibilità di organizzare dei brevi live prima dei loro concerti, fuori dal locale in cui si sarebbe svolta la serata.

E a un certo punto li invitavano a raggiungerli sul palco, in una sorta di delirante improvvisazione collettiva a metà tra il punk e il burlesque.

Dopo ogni concerto, poi, i Dresden Dolls si fermavano tra il pubblico per ore: per parlare con i propri fan, per abbracciarli, per firmare autografi. Dedicando quanto più tempo ed energie possibili a coltivare il rapporto con la community.

La band avrebbe pubblicato due dischi, fino allo scioglimento, avvenuto nel 2008.

Palmer continuò a suonare da solista, perfezionando quella che avrebbe poi definito, in quel TED Talk, l’arte di chiedere.

Nel 2011 infatti l’artista, che nel frattempo aveva deciso di abbandonare l’etichetta discografica, chiese ai suoi fan un supporto economico per finanziare la registrazione e la promozione del suo nuovo disco.

La campagna di crowdfunding, lanciata su Kickstarter con un video promozionale che fece scuola, al grido di “questo è il futuro della musica! we are the media!”, aveva l’obiettivo di raccogliere 100.000 dollari.

Grazie al coinvolgimento di 24.883 donatori, di dollari ne raccolse quasi 1.2 milioni — dando vita a quella che ancora oggi è una delle campagne di maggior successo di sempre.

Il segreto dietro ogni community

La ‘lezione’ di Amanda Palmer è importante, io credo, e ci insegna soprattutto una cosa: che l’arte di chiedere è anche l’arte di dare.

E che per metterla in pratica serve uno slancio particolare — quello verso la generosità.

Che se vogliamo ottenere qualcosa da un gruppo di persone, che si tratti di fan, membri o lettori, dobbiamo prima offrire loro qualcos’altro.

Offrire cosa, però? Tempo, lavoro e conoscenza, per esempio.

Ma non solo: anche apertura all’ascolto, al dialogo, alle idee, a nuove forme di collaborazione.

Essere generosi significa smettere di essere statue. E certo, costa fatica.

Ci richiede la volontà, come ha scritto una volta Seth Godin, di “astrarci dai nostri problemi abbastanza a lungo per riuscire a concentrarci su quelli di qualcun altro”.

E anche la capacità “di condividere qualcosa con gli altri, quando una parte di noi vorrebbe semplicemente accumulare e tenere per sé”.

La radice stessa di comunità racchiude l’idea che ci sia qualcosa (spazi, abilità, voci, valori) che viene messo in comune con altre persone, no?

Che community può esistere senza condivisione?

La generosità è alla base di tutte le storie dei creator di maggior successo: nessuna YouTuber, autrice di newsletter o podcaster è riuscita a farcela senza prima dedicare tutta se stessa alla propria comunità.

Per fortuna, la conoscenza non è una risorsa finita, non è una pizza. “If I share it with you, we’ll both have it”.

Quello con la community di supporter non è mai un rapporto unidirezionale, ma bidirezionale. E spesso, se siamo generosi, ci torna indietro più di quanto abbiamo dato, talvolta in forme diverse e inaspettate.

Per esempio, scrivere Ellissi richiede diverse ore di lavoro a settimana: sei, sette, talvolta anche una giornata intera.

Ma ciò che mi restituisce – siano mail di apprezzamento, nuovi incontri sorprendenti, o il sostegno dei miei meravigliosi member 💛 – è sempre al di sopra di ogni mia aspettativa.

Troppo spesso ci poniamo questa domanda:

“Cosa voglio ottenere dai lettori? E cosa posso offrire loro in cambio?”

Sarebbe bello, per un giorno, provare a ribaltare la prospettiva.

“Cosa possono offrirmi i lettori? E cosa posso restituire loro in cambio?”

È, questo, un primo fondamentale passo per smettere di essere statue.

Senza vergogna

Oggi Palmer continua a coltivare la relazione con la sua preziosa community attraverso Patreon — piattaforma fondata da un altro musicista, Jack Conte.

E anche adesso, nell’era della creator economy, dell’unbundling, della fioritura di nuove dinamiche digitali, il suo talk del 2013 sembra più attuale che mai.

“Le cose che ho fatto in questi anni – il Kickstarter, esibirmi per strada, i tour in couchsurfing – per me non sono rischi. Sono un segnale di fiducia”.

“Oggi i tool digitali ci permettono uno scambio più facile e istintivo, un po’ come avviene per strada. Ma anche gli strumenti perfetti non ci aiuteranno, se non saremo in grado, guardandoci negli occhi, di dare e ricevere senza paura — e, cosa ancora più importante, se non impareremo a chiedere senza vergogna”. 

Alla prossima Ellissi
Valerio

PS. Ho visto suonare Amanda Palmer una sola volta, nel 2012, in un piccolo locale di Berlino. Ero in penultima fila, ma ricordo bene come cercasse intensamente il contatto visivo e l’interazione costante con il pubblico. Ovviamente, i fiori non potevano mancare.

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

SE VUOI APPROFONDIRE

10 media company innovative da tutto il mondo

Sono convinto che ci siano tantissime lezioni da imparare - e ispirazioni da prendere - anche da realtà che percepiamo come più “lontane” da noi. Perché le sfide del giornalismo sono molto più globali che locali.

A tuo rischio e pericolo

Ogni volta che progetti un prodotto digitale, tieni a mente che stai esponendo la tua audience a una serie di rischi, più o meno visibili. Come risolvere il problema?

Contro la trappola delle metriche

Nel giornalismo ci sono le metriche-tiranno, le metriche-trappola, e le metriche che permettono davvero di capire dove si sta andando. Facciamo un po' di chiarezza.

L’idea geniale che non salverà i giornali

I micropagamenti sono stati tentati già molte volte nel mondo dell'editoria, e ora stanno ritornando, grazie anche ai token. Da Blendle a Post, quale futuro per questo mezzo di sostegno c'è al giornalismo?