Diciassette domande scomode
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C’è una battuta che circola nella redazione del Wall Street Journal, il quotidiano finanziario più famoso d’America.
“La ragione principale per cui perdiamo abbonati è che muoiono”.
Come ogni inside joke racconta due verità.
La prima, è che il WSJ può vantare un seguito di lettori fedelissimi e longevi, oltre a una invidiabile posizione dominante nel suo mercato di riferimento.
La seconda, decisamente meno lieta, è che il giornale è rimasto per decenni troppo uguale a se stesso.
Mentre la società cambiava, il WSJ raccontava le cose sempre allo stesso modo, con lo stesso taglio, dallo stesso punto di vista — rivolgendosi di conseguenza sempre alle stesse persone: una élite finanziaria bianca sempre più vecchia in una società che andava in direzione opposta, diversificandosi e frammentandosi.
Questo approccio ha causato diversi problemi ed è diventato fonte di aspri attriti interni tra proprietà e redazione, come ha raccontato di recente il New York Times.
Il WSJ è stato un pioniere dell’innovazione. Tra i grandi giornali è stato il primo a scommettere con fiducia sugli abbonamenti online.
La capacità di reagire con prontezza alla disruption del digitale gli ha garantito una solidità e una tranquillità invidiabili per un ventennio abbondante.
Oggi, però, questa tranquillità sembra essere diventata quasi agio, e ha diffuso una resistenza endemica al rinnovamento all’interno dell’azienda, timorosa di uscire dalla propria zona di comfort.
Nel giornale la definiscono “una diffusa paura culturale del cambiamento”.
Fortunatamente, anche in un mastodonte del giornalismo come il WSJ qualcuno ha iniziato a porsi delle domande.
Non semplici domande, ma domande scomode, che richiedono un certo quantitativo di autoanalisi. Che, seppur tra mille polemiche e guerre di potere, hanno avuto il merito di far nascere un dibattito interno.
Che cosa posso imparare da questa storia?
Partiamo da un presupposto: non devi essere grande (o ricco) come il Wall Street Journal per rischiare di finire incastrato in situazioni simili.
Succede a tutti. A chi lavora in una piccola realtà editoriale, scrive una newsletter settimanale, dirige un grande giornale.
E succede a tutti gli step. Quando un progetto sta per nascere, quando si adagia troppo sul proprio successo, quando sta lottando per sopravvivere.
L’antidoto, almeno per me, è semplice. Porsi ciclicamente queste diciassette domande scomode.
Perché scomode? Perché darsi soltanto grandi pacche sulle spalle non ti aiuta a crescere, e dopo un po’ ti fanno male le braccia.
Perché ciclicamente? Perché le cose attorno a noi cambiano continuamente. E anche nei media, prevenire è meglio che curare.
Perché diciassette? Perché non sono superstizioso.
Dunque, ecco le mie domande scomode che mi auto-prescrivo ogni sei mesi (circa).
Le condivido anche con te, nel caso possano esserti utili a migliorare quello che stai facendo, o per uscire da una situazione di stallo.
Come descriverei il mio prodotto oggi?
Dall’ultimo check-up, il mio prodotto è migliorato o peggiorato?
Tutto quello che produco ha valore, oppure c’è un iceberg sommerso di cui posso fare a meno?
Ci sono nuove forze di mercato (concorrenti, tendenze, tecnologie) cui dovrei interessarmi?
Chi è il mio pubblico e chi sono i miei superutenti?
Si fidano di me? Perché?
Come si sono evoluti i loro bisogni?
Sto mantenendo la promessa, scritta o non scritta, che ho fatto a queste persone?
Mi sto mettendo in gioco, oppure sto cadendo nella trappola del mic drop?
Pagherei per il contenuto che offro?
Il mio passato rischia di diventare un freno al mio futuro?
Sto misurando i miei obiettivi nel modo giusto?
Sto cercando di prendere delle scorciatoie rischiose?
Sto inavvertitamente perpetrando il problema di cui vorrei essere la soluzione?
Se fossi costretto a cambiare qualcosa in quello che faccio, che cosa sarebbe?
Che cosa non vorrei mai diventare?
Ci sono altre domande scomode che dovrei pormi?
Come vedi sono domande semplici e generiche, proprio perché vogliono essere un canovaccio adattabile a più situazioni, non delle tavole della legge.
Va da sé che l’utilità dell’esercizio è direttamente proporzionale all’onestà che metterai nelle risposte.
E nell’energia che investirai in quello che succederà dopo.
Valerio
Dopo averti inviato Il sogno ricorrente, la newsletter di venerdì scorso, ho ricevuto decine di risposte piene di riflessioni, spunti e idee.
Ho scoperto – in colpevole ritardo – le proposte di abbonamento di Nero Editions e di Edizioni Sur, che oggi offre ben cinque piani annuali diversi.
Incuriosito, ho contattato la direttrice commerciale della casa editrice, Selena Daveri, per avere qualche informazione in più su come funziona la relazione con i propri abbonati.
“C’è anche chi ci segue dagli albori”, mi ha spiegato. I piani di abbonamento nascono infatti nel 2011, anno in cui SUR è stata fondata.
Oltre ai libri “l’abbonamento include gadget e regali esclusivi, spesso anche bigliettini scritti a mano; nell’ultimo anno io e l’editore Marco Cassini abbiamo presentato in anteprima via zoom ai nostri abbonati il piano editoriale e i libri che avrebbero ricevuto”.
Come dicevo nella newsletter, saper coltivare membri di un progetto più che abbonati a un prodotto. Il fattore umano è fondamentale anche per sviluppare una relazione di fiducia.
Me lo ha confermato Selena: “Come direttrice commerciale, il rapporto con gli abbonati è prezioso perché mi permette di mantenere costantemente un filo diretto con i nostri lettori più fedeli e affezionati”.
Grazie!
Ciao, mi chiamo Valerio Bassan e mi occupo di media innovation e nuove economie del digitale. Aiuto i miei clienti a creare nuove relazioni con le loro community attravero strategie editoriali, marketing, dati e tecnologia. Questo è il mio sito.
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