Bias lacrimogeni

di | 27 Novembre 2020

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C’è un passaggio, in Twitter and Tear Gas di Zeynep Tufekci, che mi è sempre piaciuto. 

Ed è questo: 

“Chi è visibile? Chi può mettersi in contatto con chi? Come viaggiano conoscenza e falsità? Chi sono i guardiani dell’informazione? Le risposte a tutte queste domande variano a seconda delle tecnologie a disposizione.”

Ho ripensato a queste parole mentre leggevo che un tribunale ha messo fuorilegge Nexta, la principale fonte di informazione in Bielorussia per chi si oppone a Lukashenko, il presidente quasi-eterno in carica dal 1994, rimasto aggrappato al potere nonostante una recente elezione caratterizzata da evidenti brogli.

Ma Nexta non è un giornale. Nexta è un canale Telegram, dove chi cerca di resistere alla stretta autoritaria del presidente si scambia continuamente informazioni: sul canale, seguito da 2 milioni di persone, viaggiano informazioni, video e fotografie, si coordinano le azioni di protesta e viene documentata regolarmente la violenza delle forze di polizia e dell’esercito contro i manifestanti.

A volte le cose vanno nella direzione giusta.

Se c’è una cosa che mi mantiene fiducioso verso il futuro è proprio questa: che è impossibile fermare completamente i flussi di informazione. Dalla notte dei tempi, infatti, siamo capaci di inventare nuovi e creativi modi di comunicare e di fare rete.

Nell’intrigante The Victorian Internet, il vicedirettore dell’Economist Tom Standage argomentava che già nell’Inghilterra vittoriana, nella seconda metà dell’ottocento, il telegrafo venisse usato per veicolare informazioni sociali, commerciali, e militari in un modo molto simile a quanto avviene oggi attraverso il web.

La forza del flusso di informazione creato da un gruppo di persone è tanto più grande quanto più queste condividono un intento comune (inteso come di community): non a caso vediamo molti ‘nuovi media’ emergere in situazioni di crisi o di protesta, in particolare quando in gioco ci sono la giustizia e la libertà.

Questo avviene oggi, in primis, su social media e app di messaggistica. 
Secondo Omar Wasow, co-fondatore del social network BlackPlanet e professore alla Princeton University, i social consentono di veicolare “una realtà che è davanti agli occhi di tantissime persone, e completamente invisibile ad altre. Man mano che le ingiustizie diventano visibili, il cambiamento arriva”.

Un esempio: in Nigeria, nel 2020, il movimento social #ENDSARS ha trovato in Twitter il terreno fertile per porre fine alle violenze della polizia. SARS qui non si riferisce alla malattia respiratoria, ma è l’acronimo di Special Anti-Robbery Squad, il nome della brutale unità militare accusata di omicidi, stupri e sequestri contro i cittadini — nata negli anni novanta e smantellata ufficialmente lo scorso 11 ottobre in seguito alla mobilitazione digitale.

Ogni protesta nasce come un’unione progressiva di frammenti e ha bisogno di due abilitatori – uno tecnologico e uno mediatico – per crescere e affermarsi. A volte l’abilitatore è rappresentato dai social. Altre volte, da piattaforme meno conosciute. Meno ‘codificate’.

È il caso della Cina, dove la piattaforma per sviluppatori GitHub è diventata il luogo virtuale in cui i medici e attivisti non allineati riescono a veicolare informazioni sull’origine e la diffusione del Covid, sfidando le narrazioni istituzionali.

Ma anche degli Stati Uniti dove, dopo gli omicidi di George Floyd e Jakob Blake, migliaia di attivisti hanno creato e diffuso landing page create con Google Doc e Carrd contenenti informazioni e strumenti di opposizione utili a chi supporta #BlackLivesMatter.

Due siti di BLM creati con Carrd.co.

Questo tipo di proteste digitali possono portare risultati concreti, oppure sfociare in forme (più o meno incisive) di clicktivism. In alcuni casi, com’è normale, si eclissano rapidamente. A sopravvivere, però, è la spinta dietro al messaggio di cui sono portatrici.

E i media, in tutto questo, che ruolo hanno?

A volte possono avere un ruolo deleterio, perfino dannoso. Ad esempio, se raccontano una protesta utilizzando il framing sbagliato (ne avevo già parlato su Ellissi, qui).

Su Poynter, Doug McLeog evidenzia cinque bias sistemici che giornali e televisioni tendono ad applicare quando raccontano le proteste:
 

  • Privilegiano il punto di vista delle cosiddette élite;
     
  • Si focalizzano sugli episodi di una protesta anziché sui suoi motivi scatenanti;
     
  • Inquadrano le proteste come un conflitto tra “buoni” e “cattivi”;
     
  • Danno molto spazio a pochi episodi violenti, senza porre la giusta enfasi sulla maggioranza pacifica; 

 

  • Peccano di scarsa empatia verso chi mette a repentaglio la propria incolumità e libertà per esprimere un malcontento.

In altri casi, però, i media possono avere un ruolo attivo, diventando tanto degli abilitatori, quanto dei potenziatori. In ogni caso, ricoprono un ruolo fondamentale nella definizione delle problematiche sociali.

Per dirla con lo studioso William Hoynes, le loro scelte editoriali influenzano il modo in cui i cittadini percepiscono un problema come meritevole di una discussione pubblica o di un intervento politico.

In breve, i media hanno il potere di collezionare frammenti di malcontento, di metterli in fila, e di portarli all’attenzione di un pubblico più grande di quello iniziale. Sono, per dirla con Hoynes, “centrali nella costruzione sociale dei problemi sociali”.

Per contro, quando si rifiutano di approfondire alcune problematiche o di dare spazio a determinate proteste, i media mandano il messaggio opposto: che questi sommovimenti non siano veramente partecipati, giusti, o importanti.

Cosa bisogna fare, quindi?

Saper raccontare il senso di una protesta o di un malcontento popolare non è cosa facile per giornali e giornalisti, ed espone a evidenti rischi.

Ma ignorare interamente una community è una scelta ancora più pericolosa, perché contribuisce a incrinare il già pericolante rapporto di fiducia tra cittadini e media.

Inoltre, come scrive Brian Morrissey su The Rebooting, “se vuoi costruire un media brand che sia il fulcro della tua community, devi avere un punto di vista. Non ricoprirai mai un ruolo centrale senza”.

Negli ultimi anni, la decisione di assumere una posizioni netta sulle questioni-chiave dell’attualità ha fatto la fortuna di tante testate, grandi (penso al Guardian al New York Times) e piccole (penso ad alcune no-profit in Europa dell’Est o in Sudamerica, per esempio).

In un certo senso anche questi, <<Il tuo nome>>, sono esempi tangenziali di purpose marketing — un tentativo di porre i valori dell’azienda al centro del progetto, anche a livello comunicativo, e di spingere i consumatori più fedeli a diventare parte attiva nella vita del brand.

Spesso, quello che è di pubblico interesse non coincide con quello che interessa il pubblico.

Il più grande errore per un giornale è quello di dare per scontato il proprio ruolo all’interno di una comunità o società, in quanto portatore di un “bene comune”: pensare di avere un ruolo già definito, immutabile e indiscutibile.

Ma non è questa la percezione che i cittadini hanno dei giornali.

Già nel 2009 Clay Shirky ci metteva in guardia: “Society doesn’t need newspapers. What it needs is journalism”.

E quindi?

E quindi bisogna rimboccarsi le maniche, e mettersi in discussione, sempre. 

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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