Il sogno ricorrente
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Nel 2000, a 53 anni, Stephen King era all’apice della sua popolarità.
Aveva già pubblicato 36 romanzi con 8 diverse case editrici, venduto decine di milioni di libri, e solo pochi mesi prima il film Il miglio verde – adattamento cinematografico del suo libro del 1996 – aveva incassato 220 milioni di dollari, ottenendo cinque nomination agli Oscar.
Quello stesso anno, stupendo un po’ tutti, King decise di sperimentare la via del self-publishing.
Sul suo blog personale, lo scrittore cominciò a pubblicare The Plant, un romanzo che aveva iniziato a scrivere nel 1982, e che avrebbe rilasciato a puntate mensili di identica lunghezza (5000 parole).
Le puntate erano scaricabili gratuitamente dai lettori, che però allo stesso tempo dovevano impegnarsi a pagare una cifra tutt’altro che simbolica: un dollaro per capitolo, da versare entro un tempo stabilito.
King si era anche prefissato un obiettivo: se il 75% di chi scaricava i capitoli avesse effettivamente pagato in tempo, avrebbe continuato a scrivere The Plant. In caso contrario, avrebbe sospeso le uscite.
Per lo scrittore era soprattutto una sfida all’editoria tradizionale: “Amici miei, abbiamo la possibilità di diventare il peggiore incubo dei Grandi Editori”, aveva scritto sul suo sito.
Tuttavia, l’esperimento si interruppe. Arrivato al sesto capitolo, King decise di fermarsi.
Lo scrittore si giustificò parlando di una mancanza di ispirazione e della necessità di concentrarsi su altri progetti letterari (leggi: onorare contratti già firmati — alla faccia della sfida all’editoria tradizionale).
La sua assistente Marsha DeFilippo, però, ammise la vera natura del problema: “Avevamo promesso di continuare a pubblicare puntate a patto che venissero pagate. Ma a ottobre solo il 46% di chi ha scaricato il quarto episodio ha effettivamente sborsato il prezzo richiesto”.
Certo, The Plant era in anticipo sui tempi: puntava su un mezzo ancora non così diffuso, quale internet al tempo; costringeva alla lettura digitale, non certo agevolata dai device dell’epoca; e obbligava ai micropagamenti online, un altro cinema.
Ma quello che mi interessa del caso di The Plant non è tanto l’idea che uno scrittore affermato come King avesse deciso di buttarsi nel self-publishing.
Piuttosto, mi interessa analizzare la vendita di un libro attraverso un sistema di ricorrenza ciclica, periodica, simile a quella di un abbonamento mensile — in cui ogni quattro settimane paghi per ottenere qualcosa in cambio; e se ti piace quello che ricevi, rinnovi il tuo investimento il mese successivo.
L’aneddoto che ti ho raccontato mi ha fatto anche venire in mente una domanda.
Perché ognuno di noi è abbonato a servizi di consumo di musica, video, audio, delivery o giornalismo, ma quasi nessuno oggi ha una subscription per i libri che legge?
Perché non posso pagare minimum fax, Adelphi, o Il Saggiatore per ricevere a casa nuovi titoli con cadenza periodica, o per avere accesso illimitato a tutti gli ebook della casa editrice?
In controtendenza
Nel corso degli ultimi anni, la subscription economy è decollata.
Dai vestiti agli spazzolini, dalle creme agli smartphone, quasi ogni azienda ora sta ragionando su una propria offerta di abbonamento.
E il motivo è semplice: costruire una relazione basata sui dati permette di conoscere le abitudini chi acquista, ed è il mattone fondamentale su cui costruire un business che migliora nel tempo.
Inoltre, poter contare su entrate ricorrenti e prevedibili garantisce il flusso di cassa necessario a progettare investimenti più ambiziosi ogni anno.
Scenari, questi, che farebbero comodo a qualsiasi casa editrice — che, anche a causa dei tanti intermediari della filiera distributiva (e-commerce, negozi o librerie che siano), sa ben poco dei gusti, delle abitudini o delle idiosincrasie di chi acquista.
Persino il giornalismo, non certo un’industria avanguardista, ha vissuto in questi anni una decisa accelerazione verso il mondo degli abbonamenti digitali.
Eppure non si trovano molti esempi di successo di subscription model nell’editoria. Perché?
Cominciamo facendo una distinzione necessaria, e analizzando i due modelli di abbonamento attualmente disponibili sul mercato.
Uno è basato sulla usership (utilizzo), l’altro sulla ownership (possesso) del libro.
● Modello della usership
È il modello “a biblioteca”, in cui il lettore si iscrive per ricevere un accesso orizzontale a una quantità molto ampia di volumi.
Penso per esempio a Scribd o a Kindle Unlimited, due servizi di ebook streaming con un pricing identico (9.99 euro al mese).
In questo caso l’utente prende i libri in prestito, li consuma (se vuole) e li restituisce quando il suo abbonamento scade.
Altri esempi sono quelli di Perlego, la “Spotify dei libri universitari” o di MLOL Plus, che offre l’accesso a migliaia di ebook dalle biblioteche italiane.
Quello della usership, come puoi dedurre, è un modello principalmente digitale.
● Modello della ownership
È il modello “a libreria”, in cui l’abbonato accede periodicamente una selezione di titoli che restano suoi per sempre. In questo caso, i libri possono essere sia cartacei sia digitali.
Questo approccio implica spesso un certo livello di curatela a monte: i libri sono selezionati in base ai gusti del ricevente o a percorsi di lettura divisi per tematica, tipologia o prezzo.
È il modello tipico delle “book subscription box”, non un fenomeno di massa ma ormai diffuso, in cui ogni mese o trimestre l’abbonato riceve a casa un pacco contenente uno o più libri, spesso e volentieri a sorpresa (un esempio italiano è Dreamer Whale).
Rientra in questa categoria anche il Book Club di Verso Books, una delle mie case editrici preferite, che propone una membership con tre livelli di abbonamento (reader, subscriber, comrade) che includono l’invio di tutti gli ebook della casa editrice, oltre e a una selezione di titoli cartacei inviati via posta che variano a seconda del livello di membership.
Quale modello ha più successo?
Difficile dare una risposta. Per quanto riguarda i servizi di ebook streaming, ci sono davvero pochi dati a disposizione.
Nel 2019 Scribd annunciò di avere superato 1 milione di iscritti; niente male, ma briciole se paragonati alle magnitudo di abbonati di Spotify (87 milioni) o Netflix (150 milioni) all’epoca.
Di Kindle Unlimited si sa ancora meno (l’ultima stima che avevo letto parlava di 3 milioni di abbonati nel 2019).
L’altro modello, quello della ownership, è ancora più complesso da inquadrare: i servizi esistenti sono pochi e tendenzialmente piccoli.
Ancora oggi, sono rare le case editrici che offrono i propri libri in abbonamento. Pochi tra i 20 principali editori italiani, dalla veloce analisi che ho fatto, offrono oggi una subscription per accedere alla propria offerta editoriale.
Gli esempi che più si avvicinano sono gli abbonamenti ai romanzi Harmony proposti da HarperCollins e, in casa Mondadori, gli abbonamenti alle collane Urania, Segretissimo e Il Giallo. Ma in questo caso si tratta di prodotti da edicola più che da libreria.
Le uniche “vere” subscription che sono riuscito a scovare sono quelle di Effequ (che ora, però, sembra in pausa) e ROI Edizioni.
La domanda è: qualsiasi sia il modello, ci sono dei problemi comuni che rallentano la sperimentazione delle subscription nel mondo dell’editoria? E se sì, sono superabili?
Io ne ho trovati tre, ma non ho dubbi che ce ne siano altri legati soprattutto alla distribuzione (per esempio al copyright e ai contratti che i singoli autori siglano con le case editrici).
1. La ricompensa non è soddisfacente
Per ascoltare una canzone su Spotify impieghi pochi minuti, così come per leggere un articolo di giornale: in entrambi i casi, c’è un reward a breve termine, quasi pavloviano.
La serializzazione dei prodotti cinematografici di Netflix risponde a questa esigenza — ottenere una soddisfazione rapida e tangibile per l’utente.
Persino un film di due ore ha un rapporto costi-benefici più immediato di un libro: pochissimi volumi possono essere letti in un lasso di tempo così breve (un libro di 300 pagine richiede 9 ore di lettura, ovvero quanto guardare la prima stagione di Game of Thrones).
A questo si aggiunge il fatto che leggere un libro ci richiede un impegno maggiore: a differenza di un film, la lettura presuppone in noi la creazione di un immaginario interiore e di una voce narrante, fattore che aumenta il nostro sforzo cognitivo.
Questo cosa significa? Be’, che minore è l’investimento energetico e mentale che ci viene richiesto, minore è il rischio di voler interrompere un abbonamento dopo una piccola – e fisiologica – delusione.
2. L’investimento economico è troppo alto
Prendiamo le tariffe di abbonamento offerte da Scribd o Kindle (quasi 120 euro l’anno), o immaginiamoci un servizio di subscription di Adelphi o Il Saggiatore (ipotizziamo 100 euro l’anno).
Considerando che il prezzo medio di copertina di un ebook è circa 7€, e che quello dei libri cartacei è nettamente superiore, una lettrice dovrebbe consumare almeno 16-17 titoli all’anno per giustificare l’investimento a se stessa.
Ma i conti non tornano: secondo una recente ricerca Istat, appena il 40% degli italiani sopra i 6 anni legge libri. Di questi, il 44% legge meno di tre libri all’anno (sono i cosiddetti “lettori deboli”) e appena il 15,6% degli italiani ne legge uno al mese (i cosiddetti “lettori forti”).
Come vedi da questi numeri, appare evidente come la soglia psicologica di 16-17 libri all’anno – necessaria per giustificare il valore di un abbonamento – sia difficilmente raggiungibile per la quasi totalità degli italiani. Il mercato, insomma, è troppo piccolo.
3. La libertà di scelta è limitata
C’è anche un altro rischio, ed è legato a doppio filo alle modalità in cui consumiamo i libri — ovvero, spaziando tra generi e autori diversi a seconda di consigli che riceviamo dagli amici, dalle recensioni che leggiamo, dalle copertine che ci ispirano.
La libertà di scelta, come in tutti i prodotti culturali, è un grande valore.
Il rischio è che le singole case editrici abbiano un catalogo troppo ristretto per soddisfare tutte le nostre voglie di lettura annuali (ricorda: stiamo parlando di “lettori forti” ed esigenti).
Dall’altro lato, le piattaforme di ebook streaming pagano l’assenza di tantissimi titoli di punta: negli Stati Uniti, Kindle Unlimited ha milioni di libri, ma pochissimo di quelli pubblicati dalle cosiddette “Big 5” dell’editoria americana, che detengono il 70% del mercato.
È un po’ come se Spotify non avesse i brani di Universal, Sony e Warner — continueresti a pagare dieci euro al mese?
Infine, fattore non meno importante, le grandi piattaforme ad abbonamento offrono solo la fruizione in digitale, in un mondo in cui il libro cartaceo ha ancora una grande valenza per i lettori.
E quindi non ci sarà mai un mercato per proposte di questo tipo?
In realtà, sono convinto del contrario. Molte case editrici hanno l’opportunità di costruire una proposta di abbonamento. Chi vuole provarci, però, deve rispettare (almeno) cinque condizioni:
1. Costruire una relazione coi propri lettori. Non basta vendere tanti libri, serve avere una community reale. Se i tuoi touchpoint più efficaci sono le stazioni di servizio o gli scaffali dell’Esselunga, il rapporto con i tuoi clienti è probabilmente troppo distaccato e occasionale per riuscire a proporgli un abbonamento.
2. Coprire un tema o un genere abbastanza specifico. Le subscription che funzionano di più sono quelle verticali, rivolte a un’audience dai gusti ben definibili. In questo senso, l’editoria B2B è sicuramente posizionata meglio rispetto a quella B2C. Ma anche le case editrici generaliste possono sperimentare modelli simili, magari puntando su sottoscrizioni alle singole collane tematiche.
3. Avere dimensioni medio-piccole. È assai probabile che il modello a subscription – per i motivi di cui sopra – non generi mai introiti abbastanza rilevanti per un grande gruppo editoriale; al contrario, per realtà medio-piccole, poter contare anche solo su 1000 abbonati costituirebbe un flusso di cassa fantastico su cui costruire il futuro.
4. Saper coltivare membri di un progetto, più che abbonati a un prodotto. Il fattore umano è fondamentale. Attorno al progetto di subscription bisogna offrire servizi complementari che ne innalzino il valore: curation personalizzata, approfondimenti tematici, esperienze fisiche, book club diffusi e via dicendo.
5. Capire come si gioca il subscription game. Come accade per ogni industria, non basta costruire un programma di subscription perché questo abbia successo: serve la capacità di inglobare e analizzare i dati in profondità, utilizzare (bene) i CRM, prevedere professionalità specifiche e dedicate al progetto.
Direi che per oggi è tutto: non voleva essere una riflessione esaustiva (potremmo parlarne per ore), ma un tentativo di avviare una discussione.
Proprio per questo, se lavori in una casa editrice, sarei curioso di sentire il tuo parere.
Hai mai pensato di realizzare un modello a subscription? Ci hai provato, e non è andata bene? Che cosa ti ha frenato dallo sperimentare?
Scrivimi.
Valerio
Ciao, mi chiamo Valerio Bassan e mi occupo di media innovation e nuove economie del digitale. Aiuto i miei clienti a creare nuove relazioni con le loro community attravero strategie editoriali, marketing, dati e tecnologia. Questo è il mio sito.
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