Vanilla Marketing

di | 29 Gennaio 2021

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Che sapore ha il gelato al gusto puffo?

Sono cresciuto con questo dubbio senza mai trovare una risposta. 

A dirtela tutta, non ricordo di averlo mai assaggiato — ma anche se fosse, non ci avrei capito granché: intere generazioni di sommelier del gelato, ben più qualificati di me, non sono state in grado di risolvere il dilemma legato al suo sapore.

C’è chi dice sappia di mandorla, chi sente note di latte e cereali, chi azzarda lampone o cocco, chi sostiene sia semplice vaniglia colorata.

E poi c’è la Cucina Italiana, che sintetizza così: “Non sa di niente”.

Ma facciamo un passo indietro. Quello che in Italia conosciamo come gusto puffo nasce in realtà nel Midwest americano, almeno 70 anni fa, con un altro nome: blue moon.

Non abbiamo mai saputo chi abbia inventato questo gelato azzurro, dal sapore dolciastro, amatissimo dai bambini. 

La più vicina a trovare una risposta è stata una giornalista del Chicago Tribune che, nel 2007, identificò il possibile ideatore in tale Bill Sidon.

Sidon, un chimico ebreo che scappò dalla Germania nazista nel 1939, era stato assunto come “responsabile dei sapori” dalla Petran Products di Milwaukee negli anni ’50 — una delle aziende leader nella produzione dell’azzurrognolo gelato.

Tuttavia, del blue moon ci sono arrivate tracce ancora più antiche, risalenti almeno all’inizio degli anni ’40. È dunque probabile che Sidon non ne sia il vero creatore, ma che abbia “solo” contribuito a perfezionare e industrializzare l’invenzione di qualche gelataio locale.

Sull’effettivo sapore del gusto puffo aleggia altrettanta nebbia: a quanto pare, ogni azienda produttrice ha la sua ‘ricetta segreta’ — tuttavia, anche questo è un mistero fino a un certo punto: sostanzialmente è un gelato a base vaniglia, arricchito da qualche sapore fruttato, e da una dose massiccia di colorante E133.

La forza del gusto puffo, comunque, sta nel suo essere spiazzante e rassicurante: spiazzante nell’aspetto, rassicurante nel sapore vagamente famigliare.

Ho ripensato al mio complesso rapporto con il gusto puffo recentemente, leggendo un articolo del New York Times sui biscotti Oreo.

Che c’entrano gli Oreo, adesso?

Ci arrivo a breve, promesso.

Se non lo sai, gli Oreo – con i loro due wafer al cacao e il distintivo ripieno di crema alla vaniglia – sono uno degli snack dolci industriali più popolari e longevi al mondo (sono in commercio dal 1912).

Negli ultimi decenni Mondelez International, l’azienda produttrice, ha affiancato agli Oreo classici – e alla loro variante vanigliata, i Golden Oreos – una sfilza di edizioni speciali stravaganti nel gusto e nei colori.

I primi spin-off furono gli Oreo al limone, immessi sul mercato già negli anni ’20, ma ebbero vita breve.

Ora l’offerta si è decisamente ampliata: ci sono Oreo al gusto di bombolone ripieno, churros, sciroppo d’acero, piña colada, wasabi e, per il mercato cinese, alette di pollo — ricette sviluppate in azienda da un team segretissimo, pare, composto da cuochi, chimici, marketer e data scientist.

A questi si affiancano altrettanti biscotti solo esteticamente diversi.

Come gli Oreo Supreme – biscotti rossi e ripieno bianco – effetto di una partnership commerciale con il brand di streetwear.

O come gli Oreo Lady Gaga, biscotto rosa e ripieno verde, ideati per promuovere il nuovo album della cantante, Chromatica.

In entrambi i casi, il sapore è identico a quello dei Golden Oreo, ma in una colorazione diversa.

L’aspetto più interessante è però il motivo per cui Oreo produce decine e decine di edizioni speciali. 

Vendere di più, no?

Sì, ma non direttamente.

Con le edizioni limitate l’azienda ottiene infatti un potente effetto traino: i biscotti speciali attirano un parco più ampio di potenziali clienti che, una volta arrivati allo scaffale (più o meno virtuale) del prodotto, acquistano più Oreo “normali”.

Un approccio di marketing non convenzionale che, data la natura del prodotto, definirei vanilla marketing.

“Le vendite non sono il punto chiave” ha spiegato infatti Justin Parnell, il direttore del brand, al New York Times. Le nuove colorazioni “hanno un ruolo più ampio: aiutano a ricondurre i consumatori al ‘padre di famiglia’, il buon vecchio Oreo standard. In altre parole, i gusti innovativi fungono da pubblicità per l’originale”.

L’approccio sta funzionando: negli ultimi tre anni, scrive Il Post, le vendite dei gusti speciali sono aumentate del 12 per cento, trascinando anche quelle degli Oreo tradizionali, cresciute del 22 per cento.

Nel suo libro Svuota il Carrello, Gianluca Diegoli parla di prodotti civetta: prodotti che hanno la funzione di attrarre il consumatore che poi, esposto all’intero assortimento del negozio, decide di acquistare anche altro (o una variante più costosa). 

Prodotti civetta sono, ad esempio, il caffè al bar o le mozzarelle scontate al 50% che campeggiano nella prima pagina del volantino promozionale al supermercato.

In questo senso, anche il gelato al puffo è un prodotto civetta: il suo target sono i bambini, ma in gelateria ci vanno (con) i genitori. E che fai, una volta davanti al bancone con tua figlia — non te lo fai un cono doppio cioccolato e amarena?

“Il prodotto civetta è un duello tra marketer e consumatore”, scrive Diegoli, che cura anche l’ottima newsletter minimarketing. “Il primo pensa di indurre l’acquisto di altre cose sfruttando acquisto di impulso, cross-selling, ma anche semplice esposizione all’assortimento; il secondo cerca di comprare solo i prodotti civetta, uscendo indenne dalla trappola. L’esito del duello non è scontato”.

Trovo il vanilla marketing davvero interessante. E penso che anche tu potresti applicarlo a quello che fai.

Condivido con te tre ragionamenti, liberamente ispirati dagli esempi che ti ho raccontato oggi, e che si rivolgono soprattutto a chi si occupa di produrre e monetizzare i contenuti online.

1. Prova a cambiare il contenitore

Chiamalo come vuoi — colore, aspetto, packaging. Io, che lavoro nei media, uso una parola che mi piace molto: formato. 

Il formato è la scatola che costruisci attorno al contenuto. Ma non è una scatola che, semplicemente, assume la forma del contenuto: a sua volta contribuisce a dargliela. E a definirlo, aiutandolo a raggiungere più persone.

Quando devi veicolare un contenuto a un’audience, scegliere il formato giusto è fondamentale: fa la differenza tra successo e insuccesso. Ti dirò di più: spesso, il formato è il messaggio.

Se il gusto del tuo “Oreo” rimane lo stesso, cambiare il colore del biscotto e della crema può aiutarti a intercettare un nuovo pubblico?

2. Pensa sempre all’effetto traino

Nessuno di noi vende un unico prodotto. Ogni offerta singola è un bundle potenziale, tenuta insieme da fili invisibili che – se ben posizionati – spingono il cliente all’upselling e al cross-selling.

Il tuo “scaffale” deve offrire opzioni in grado di fare presa su audience diverse, primarie e secondarie, creando un effetto traino simile a quello garantito dai prodotti civetta.

Dei prodotti che offri, ce n’è almeno uno in grado di svolgere un effetto traino efficace? Sai distinguere tra la tua core offering e i tuoi “Oreo Lady Gaga”?

3. Non accontentarti di un po’ di colorante

“Alcuni brand non sono altro che gelato alla vaniglia colorato di azzurro”. 

Per distinguerti, tuttavia, hai bisogno di avere una tua ricetta originale, come quella – oggi apparentemente introvabile – del gelato blue moon.

È un passaggio fondamentale — visto che, come ti dicevo settimana scorsa, la qualità paga sempre.

Dunque, ti chiedo: qual è la tua ricetta originale?

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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