L’archivio dei pessimisti
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“I computer faranno la stessa fine dei videogiochi, quella di una moda passeggera”.
Questa apocalittica previsione, che oggi può farci sorridere, non è stata proferita da un tizio qualunque.
A formularla fu infatti nel 1985 Steve Wozniak, il cofondatore di Apple. Uno dei pionieri del personal computing.
Parlando con un giornale dell’Illinois, Wozniak espresse seri dubbi sul futuro dei processori e sulla loro utilità per la gente.
“Per la maggior parte dei compiti quotidiani, come gestire le proprie finanze, consultare gli orari delle compagnie aeree o scrivere una lettera, la carta funziona bene almeno quanto un computer. E costa meno”, disse.
Ho scovato questa perla su Pessimists Archive, insieme a centinaia di altre previsioni tecnologiche rivelatesi, col tempo, sbagliate.
Alcune sono davvero assurde. Le biciclette furono accusate di spingere le donne a fumare, gli ascensori di aumentare il tasso di criminalità, i walkman di alterare la nostra mente.
Altre, invece, erano pure e semplici dimostrazioni di tecnoscetticismo: ci fu chi predisse con certezza il fallimento di innovazioni che avrebbero poi finito per cambiare li mondo, come l’aeroplano e il telefono.
La storia, però, ci ha dimostrato che ogni tecnologia percorre un ciclo di vita segnato da diverse fasi: ricerca e sviluppo, adozione, diffusione di massa e una (più o meno lenta) obsolescenza.
A ognuna di queste fasi di maturazione prende parte – come teorizzato da Everett Rogers – un determinato gruppo di individui. Prima tocca agli innovatori, poi agli early adopter, poi alla maggioranza delle persone e infine ai cosiddetti ritardatari, quelli che si arrendono per ultimi.
Quante più persone adottano la tecnologia, quanto più questa diventa “normale”, rassicurante e percepita come inevitabile: quello che un tempo sembrava impensabile, o persino stupido, diventa routine.
E se da un lato penso che una certa dose di scetticismo verso la tecnologia sia normale (e pure sana), credo invece poco nel valore del pessimismo cieco — che, come abbiamo visto, può finire per ritorcersi contro i presunti oracoli di ogni epoca.
Innamorarsi dell’orizzonte
Ho ripensato a tutto questo leggendo delle difficoltà che Meta sta vivendo con il suo metaverso, Horizon Worlds.
Il progetto core dell’azienda di Zuckerberg stenta infatti a decollare: gli utenti attivi sulla piattaforma sono solo 200.000, molto meno dei 500.000 che si era prefissata di raggiungere entro la fine del 2022.
E i primi scettici, in questo caso, sembrano essere proprio i dipendenti di Meta. In una mail aziendale poi resa pubblica, infatti, un manager osserva:
“Non stiamo trascorrendo abbastanza tempo all’interno di Horizon, la nostra dashboard interna lo mostra piuttosto chiaramente”.
Tralasciando un attimo il candore con cui si dichiara l’esistenza di una dashboard interna che monitora le attività online dei dipendenti, l’imperativo è chiaro, e la richiesta esplicita:
“Tutte le persone di questa organizzazione dovrebbero, come parte della propria missione, innamorarsi di Horizon Worlds. Cosa che non può succedervi se non lo usate”, proseguiva.
Al netto che l’amore dovrebbe essere un sentimento più che una scelta, da queste cose si capisce che Meta è preoccupata.
Anche perché, come ha raccontato Charlie Warzel su The Atlantic, quindici anni fa sulle colline di Menlo Park si respirava tutta un’altra vibe: gli strumenti di Facebook erano amati dai suoi dipendenti, che li utilizzavano costantemente, per scopi lavorativi e ricreativi.
Quelli che un tempo furono evangelizzatori, dunque, oggi sembrano essere diventati tecnoscettici. Come si può convincere le persone ad abbracciare l’innovazione se si è tra i primi a non crederci? L’azienda si sta ponendo esattamente questa domanda.
Guarda mamma, senza gambe
Fino a oggi, il 91% dei mondi costruiti dagli utenti su Horizon Worlds è stato visitato da meno di 50 persone.
Al momento questi grandi ambienti virtuali sono completamente deserti e somigliano più agli spazi liminali delle backrooms — ma senza nemmeno quel brivido horror buono a tenerci incollati al nostro headset.
I problemi attuali del Meta-metaverso sono di diversa natura: ci sono le barriere di accesso troppo alte (il visore Quest 2 parte da €449,99) e i glitch funzionali sono ancora tantissimi (per capirci, fino a poco fa gli avatar non avevano le gambe).
Le critiche non sono mancate, in alcuni casi anche piuttosto taglienti. Meta ha diffuso un comunicato piuttosto piccato per rivendicare la sua missione, spiegando che “è facile essere cinici verso una tecnologia nuova e innovativa. Costruirla per davvero, però, è molto più complesso”.
In questa frase, bisogna ammetterlo, c’è un fondo di verità. Come bisogna ammettere che anche gli altri metaversi esistenti non brillano per densità di popolazione: l’ambizioso progetto di Decentraland, nonostante una capitalizzazione da 1.2 miliardi, non se la passa affatto bene.
Il problema, dunque, non è solo di Meta. Ma è proprio l’azienda di Zuckerberg – che ha perso il 61% del suo valore nell’ultimo anno – a scontare la maggior parte della “pena”. Come mai?
La risposta, credo, va cercata nell’approccio che Menlo Park ha avuto sin dall’inizio a questa storia.
Il rebranding da Facebook in Meta, con conseguente riadattamento della missione aziendale, è stato dettato dalla necessità di risollevare la propria immagine dopo un periodo molto complicato.
Il pivot to metaverse per Facebook è sembrata ai più una scelta anzitutto narrativa, di storytelling, più che mirata a soddisfare un reale bisogno del pubblico.
E nonostante le ampie rassicurazioni del suo fondatore, che ha promesso la nascita di un metaverso costruito “con la collaborazione di tutti”, la tecnologia appare ancora oggi calata dall’alto.
Questo scoraggia gli early adopters, per cui l’investimento emotivo dipende molto più dalla credibilità generale del progetto che dal numero di glitch o bug irrisolti (che, al contrario, possono essere uno stimolo).
Probabilmente è ancora presto per emettere giudizi. Forse dovremmo aspettare che il metaverso raggiunga un livello minimo di maturazione, che i costi di accesso diminuiscano, o che si scateni un effetto network al momento ancora non pervenuto.
Nel frattempo Meta potrebbe valutare un nuovo cambio di narrativa che assomigli, più che all’ennesimo rebranding, a un debranding. L’errore infatti potrebbe essere stato proprio quello: legare in modo troppo stretto il metaverso alla propria missione aziendale.
Sarebbe più utile spegnere i riflettori, tornare a lavorarci sotto traccia senza cercare di accelerare forzatamente il ciclo di vita della tecnologia: meno fanfara potrebbe restituire al progetto maggiore credibilità e togliergli quella patina corporate che mal si sposa con il mito delle grandi innovazioni.
Ma le mie sono solo supposizioni. La vera risposta sul successo del metaverso la troveremo solo tra qualche decennio, tra i trafiletti dei giornali catalogati su Pessimists Archive.
Alla prossima Ellissi
Valerio
Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.
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