Il rumore dell’albero che cade

di | 23 Settembre 2022

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— “Se un albero cade in un bosco e non c’è anima viva nei dintorni, fa rumore?”
  — “Certamente!” [imita il rumore di un albero che cade]
  — “Ma Bart, come può esistere il rumore se non c’è nessuno ad ascoltarlo?”

  (I Simpson)

Qualche giorno fa, sul New York Times, Zeynep Tufecki ha scritto un editoriale che mi ha fatto pensare.

“I nuovi vaccini sono una notizia fantastica, ma in pochi ne hanno sentito parlare”, era il titolo dell’articolo.

Nel pezzo Tufecki spiega che le grandi innovazioni della scienza e della medicina, quando non vengono comunicate adeguatamente al pubblico, rischiano di diventare inutili.

Del resto, chi può usufruire di una cura se non sa che esiste?

Proprio in questi anni, contraddistinti da una crisi delle notizie – del modo in cui nascono, si diffondono, e vengono recepite – il tema è diventato centrale: quello che accade nel mondo ha valore per le persone che non ne vengono a conoscenza?

I fatti non smettono di avvenire, ovvio: se comunicati male, però, il loro impatto sulla società diminuisce. L’albero continua a cadere, ma il suo suono diventa inaudibile.

Non so se le notizie, come formato giornalistico, si siano definitivamente rotte.

Di sicuro c’è che non funzionano più come un tempo: non sono mai state così numerose, eppure là fuori ci sono sempre meno persone ad ascoltarle.

Termini come news fatigue (affaticamento da notizie) e news avoidance (la tendenza a evitare le notizie) compaiono sempre più spesso nei report internazionali che fotografano lo stato del giornalismo.

A livello globale, l’interesse verso le notizie è diminuito drasticamente negli ultimi cinque anni, nonostante il picco pandemico — scendendo dal 63% al 51%.

Il numero di brasiliani o inglesi che evitano di informarsi, del tutto o in parte, è raddoppiato.

E anche in Italia gli avoiders parziali o totali sono in crescita (dal 28% al 34%).

Pensaci: delle prime tre persone che incontrerai per strada questa mattina, almeno una avrà un’idea molto vaga (o nessuna!) di quello che sta accadendo nel mondo.

Perché evitiamo le notizie?

Le ragioni sono varie.

Tra queste c’è la difficoltà di selezione causata dall’information overload — non è semplice riuscire a “sentire” quello che veramente conta quando il rumore è debordante.

Un altro fattore è rappresentato dalla sfiducia (ormai radicata) nei mezzi d’informazione, di cui ti ho già parlato in passato.

C’è, poi, la sensazione di scoramento e di depressione che la cascata dell’informazione ci lascia addosso, in quello che appare come un flusso inesauribile di negatività.

“Prestare attenzione a eventi come la guerra è doloroso”, ha scritto Rebecca Rozelle-Stone, professoressa dell’università del Nord Dakota.

“Le persone non hanno gli strumenti adatti per mantenere un focus prolungato sugli eventi traumatici di lunga durata”.

In un periodo come questo, in cui tutto pare andare nel verso sbagliato e le emergenze concatenarsi e sovrapporsi con chirurgica precisione, siamo affetti da una “stanchezza da crisi” che sfocia, spesso, in un’ansia anticipatoria da news.

È quasi come se fosse un meccanismo di difesa: “le evito a prescindere, perché so che mi faranno stare male”.

Ripensare le notizie

Sarebbe facile dare la colpa alla pigrizia (o all’ignoranza) delle persone, oppure al senso di impotenza che proviamo nel non potere cambiare le cose brutte che ci succedono attorno — la stessa Rozelle-Stone una volta definì la nostra epoca digitale come “caratterizzata dall’ossessione del guardare e dall’impossibilità di partecipare”.

Tuttavia, un certo grado di colpa andrebbe attribuito – credo – anche quello che potremmo definire come il prodotto-notizia: e cioè al modo in cui le notizie vengono confezionate, distribuite e monetizzate da testate e televisioni.

Nell’ultimo decennio le news sono state ingegnerizzate per estrarre dati e visualizzazioni dai consumatori.

Nell’era del click le breaking news sono diventate il più potente strumento arraffa-traffico — dove non è più importante verificare, ma arrivare primi.

Il web dell’attenzione ha trasformato le notizie in un’esca travestita da servizio. I giornali le hanno frammentate, privilegiando talvolta la produzione di tanti lanci mordi-e-fuggi a quella di un articolo che garantisca una visione di insieme più ragionata.

Un esempio su tutti è l’inseguimento all’ultima dichiarazione del politico di turno: la classica non-notizia, utile a generare qualche pagina vista in più, ma non certo una migliore consapevolezza del mondo tra i lettori.

È il modello molto ben oliato e su cui poggiano anche le piattaforme.

Come ho scritto nell’ultimo numero de Il Mulino, “i modelli di business del web poggiano infatti sul binomio attrazione/distrazione, ideato per servire più gli interessi di potenti aziende transnazionali che quelli delle persone che ne utilizzano i servizi.”

È il momento

Un tempo le notizie rappresentavano un capitale sociale per la persona — che informandosi poteva operare scelte migliori sia per la sua vita, sia per quelle degli altri nella sua comunità.

Oggi dovremmo forse ritornare a immaginare le news come un capitale, come una valuta che le persone possano “spendere” ottenendo in cambio qualcosa di utile. Ripristinarne, insomma, il valore.

Qualcuno ci sta ragionando, come il nascituro Semafor, che ha l’obiettivo dichiarato di ripensare i formati che i giornalisti utilizzano per raccontare il mondo.

Se anche l’impresa può sembrare titanica – e lo è: non è facile riparare un albero che si è spezzato – è arrivata l’ora di cominciare seriamente a pensarci: la news avoidance è un problema non solo per i media, ma anche per le nostre democrazie.

Cosa ce ne faremo del rumore se non ci sarà più nessuno ad ascoltarlo?

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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