Quando arriva il 2043
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“Le notizie sono qualcosa che qualcuno, da qualche parte, non vorrebbe che venisse stampato. Tutto il resto è pubblicità”.
Questo, come forse sai, è uno dei motti più celebri della storia del giornalismo. Ha origini incerte, e circola nelle redazioni da oltre cent’anni.
Continua a diffondersi per un semplice motivo: ancora oggi, nel mondo, ci sono persone che non vogliono che qualcosa venga stampato. E che sono disposte a tutto per raggiungere il loro obiettivo.
C’è addirittura chi arriva a sequestrare la materia prima, la carta, per evitare che un giornale scomodo finisca nelle edicole di un paese.
È quanto è successo quest’anno a La Prensa, il giornale più diffuso del Nicaragua, nonché l’ultimo quotidiano di carta rimasto nel paese.
La Prensa è di proprietà della famiglia Chamorro, che si oppone al governo autocratico di Daniel Ortega, l’uomo che guida il paese da oltre quarant’anni.
Cristiana Chamorro, vicepresidente del giornale, è la figlia di Pedro Joaquín Chamorro, ex direttore de La Prensa.
Pedro Joaquín fu assassinato nella sua auto dai sicari della famiglia Somoza, che tra il 1936 e il 1979 instaurò un lunghissimo governo dittatoriale terminato solo con la rivoluzione sandinista, di cui Ortega era uno dei comandanti.
Qualche mese fa, quando Cristiana Chamorro ha annunciato di volersi candidare per la presidenza del paese alle elezioni di novembre, Ortega l’ha fatta arrestare — insieme ad altri sette candidati.
Poche settimane dopo l’arresto di Chamorro, poi, la polizia ha effettuato un raid nella sede del giornale a Managua, sequestrando documenti, computer e – per l’appunto – le scorte di carta necessarie per stampare il giornale.
Una mossa, quella di Ortega, già sperimentata con ‘successo’ in passato.
Ora il Nicaragua rischia seriamente di diventare il primo paese al mondo senza più nemmeno un giornale di carta.
E le conseguenze per la libertà di informazione – meno di 3 nicaraguensi su 10 hanno accesso a internet, il tasso più basso dell’America Centrale – sarebbero estremamente gravi.
Fu la stampa, bellezza
Se c’è chi non può più stampare, c’è anche chi decide di non stampare più.
E il motivo in questo caso non è politico, ma economico.
La fine del quotidiano di carta, il cosiddetto 7-days newspaper, è stata pronosticata da tempo.
Già nel 2004, nel suo libro The Vanishing Newspaper, il professore Philip Meyer profetizzava che l’ultima copia cartacea del New York Times sarebbe stata venduta nel primo trimestre del 2043.
Qualche anno dopo, nel 2007, l’editore del New York Times si era dimostrato ancora meno ottimista di Meyer. Intervistato da Haaretz, Arthur Sulzberger Jr. aveva detto:
“Non so se stamperemo ancora il nostro giornale tra cinque anni, e sapete una cosa? Non me ne frega niente”.
Sono passati quasi quindici anni dalle parole di Sulzberger, e il Times è ancora nelle edicole ogni mattina.
Ok, la sua foliazione si è ridotta, e la circolazione pagata si è dimezzata.
Ma l’incarnazione fisica del giornale resiste, così come un certo tipo di pubblico fidelizzato – circa 900mila persone, tra abbonati e acquirenti – e di inserzionisti che vogliono il cartaceo.
Tant’è che, fino al 2020, i ricavi dalla carta sono stati sempre superiori a quelli dal digitale, prima che avvenisse lo storico sorpasso.
Se la scomparsa dei quotidiani di carta è più lenta del previsto, non significa che la strada non sia segnata — e che questo non stia già accadendo, altrove.
In Australia, nel 2020, News Corp ha cessato la pubblicazione cartacea di 76 giornali locali, tagliando interi centri di costo e puntando tutto sul digitale.
Dal primo gennaio di quest’anno, dopo oltre un secolo di vita, le due testate pubblicate nella città americana di Salt Lake City hanno abbandonato la stampa quotidiana, trasformandosi in settimanali.
La fine del quotidiano è realtà anche a Chattanooga, dove il Chattanooga Times non solo ha fermato le rotative, ma ha anche ha iniziato a regalare iPad ai propri abbonati per abituarli alla lettura digitale.
Il caso Independent
L’urlo “stop the presses!” risuonò nella redazione dell’Independent già nel 2016.
Cinque anni fa, infatti, il giornale inglese decise di stampare il quotidiano per l’ultima volta.
Al suo picco The Indy, come è conosciuto dai suoi lettori, distribuiva 428.000 copie al giorno. Negli anni la cifra era crollata a 26.000.
Oggi i risultati di quella scelta sembrano dare ragione all’azienda.
Dal 2017, il suo primo vero anno out of print, il giornale è infatti sempre stato in attivo.
E quest’anno le cose sono andate anche meglio: il reddito operativo nel 2021 è raddoppiato rispetto al 2020, e i ricavi sono cresciuti del 30%, da circa 3.1 a 6.3 milioni di euro.
‘Merito’, certo, anche della pesante ristrutturazione che ha portato al licenziamento di un alto numero di giornalisti: al tempo si vociferò di circa 100 giornalisti cacciati su 160, ma il dato definitivo non è mai stato rivelato.
E, come se non bastasse, a chi rimaneva venne imposto un taglio significativo dello stipendio, giustificato con la necessità di investire su nuove risorse più pronte ad affrontare l’esperienza digitale.
In un modo o nell’altro, però, la trasformazione si è compiuta, e i conti sono tornati a sorridere. Oggi nella redazione dell’Independent lavorano a tempo pieno 146 giornalisti, una cifra paragonabile a quella dei ‘tempi d’oro’ della carta. E nel 2022 sono previste 25 nuove assunzioni.
I ricavi del giornale arrivano oggi per il 60% dalla pubblicità online e dal branded content, per il 25% dalla vendita dei contenuti (soprattutto tramite abbonamenti) e per il restante 15% da un mix di servizi digitali che la casa editrice offre ad altri publisher.
La strategia è stata chiara sin dall’inizio e ruota attorno a tre cardini principali, come ha spiegato il ceo Zach Leonard: la diversificazione delle revenue, la conversione degli utenti da anonimi a registrati (il cosiddetto flusso A2K, anonymous to known), e l’espansione internazionale.
“Come un bagno caldo”
Il passaggio da carta a digitale non è (ovviamente) indolore. Per nessuno.
In primis, dobbiamo ricordarci che il pubblico non si sposta automaticamente online: molti degli abbonati storici dell’Independent sono semplicemente ‘svaniti’ durante la transizione, e con essi anche gran parte dell’attenzione totale dedicata ai contenuti del giornale.
Inoltre, non siamo ancora riusciti a replicare in digitale la piacevolezza dell’esperienza di lettura del quotidiano, quella che Marshall McLuhan definiva “immergersi in un bagno caldo”.
Non si è persa solo la gerarchizzazione dei contenuti (le homepage sono uno dei prodotti più fallimentari dei giornali digitali), ma anche quel prezioso senso di finibilità che restituiva soddisfazione ai lettori, anziché gettarli in pasto all’ennesimo feed infinito senza porta di ingresso e di uscita.
E si è perso anche il branding. Ricordarsi su quale testata abbiamo letto un determinato contenuto è diventata un’impresa. Il giornale di carta serve anche a questo.
Infine, la pubblicità continua a rappresentare una pietra tombale per qualsiasi UX digitale: cosa faremo quando anche l’ultima lettrice si sarà stancata di giocare a campo minato ogni volta che vuole leggere un articolo?
Tutte cose su cui bisogna continuare a interrogarsi e a progettare, prima che finisca la carta.
Alla prossima Ellissi
Valerio
PS. Nel 2020 l’allora CEO del New York Times, Mark Thompson, è tornato sull’argomento, dicendo che “sarebbe sorpreso di trovare ancora un’edizione cartacea del giornale tra vent’anni”. Vuoi vedere che alla fine quella profezia sul 2043 non era poi così strampalata?
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