La sfida per diventare l’Everything Newspaper

di | 17 Settembre 2021

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Il 9 novembre 2016 ero a New York, e tra le poche cose che ricordo nitidamente di quella mattina, mentre passeggiavo verso la sede della City University sulla 42esima, c’era il senso di stordimento e incertezza che attraversava gli occhi dei passanti di Central Park.

Tutti camminavano al rallentatore, come sospesi sull’erba, cercando di capire se si fosse trattata di una specie di allucinazione collettiva, oppure se fosse successo per davvero.

Nella notte, Donald J. Trump aveva vinto le elezioni presidenziali americane.

Arrivato alla prima edicola, comprai una copia del New York Times e una del Washington Post.

Come a voler aggiungere un senso di distopia a quella mattina, entrambi i giornali avevano scelto lo stesso, identico titolo.

Due parole: “Trump Triumphs”.

Quattro anni dopo, nella tarda mattinata dell’8 novembre 2020, mi trovo a Milano.

Negli Stati Uniti si è appena conclusa un’altra elezione. Così, tenendo fede al mio rito, vado a sbirciare le prime pagine dei due principali quotidiani americani.

“Biden defeats Trump”, titola il Washington Post. “Biden beats Trump”, è invece la scelta del New York Times.

Non posso fare a meno di notare che – rispetto a quattro anni prima – stavolta i titoli contengono anche il nome dello sconfitto: Trump è ormai un personaggio troppo ingombrante per poter essere sottinteso.

E poi mi fermo a pensare al peso specifico che risiede nella scelta di un verbo. Quale dei due fa più ‘rumore’, sconfigge oppure batte?

Oggi non vorrei parlarti di titoli, ma di due giornali – il Washington Post e il New York Times, probabilmente le due testate di informazione più famose al mondo – e della loro eterna sfida.

Tra Post e Times vige una cavalleresca rivalità – fatta di pacche sulle spalle, critiche, e Pulitzer condivisi – diventata oggi una sorta di contesa foraggiata dal decennio d’oro del New York Times e dalla nuova linfa data al Post dall’acquisizione di Jeff Bezos nel 2013.

È la gara per diventare the everything newspaper, il Giornale Totale, il più forte, temuto e letto quotidiano al mondo. E chi la sta vincendo, questa sfida?

Analizzerò le performance delle due testate in cinque ambiti diversi: Subscription, Audience Globale, Strategia di Prodotto, Distribuzione social, Tecnologia.

Ti sembra interessante? Ok, cominciamo.

 

Sfida 1 → Le subscription

Il Times punta sugli abbonamenti digitali con convinzione dal 2011 — il che gli ha permesso di accumulare un solido vantaggio sulla diretta concorrenza.

Il giornale della famiglia Sulzberger conta oggi ben 7 milioni di abbonati digitali, di cui il 75% (5.3 milioni) è abbonato a quello che l’azienda definisce il core news product. In poche parole, il suo giornalismo.

Il Washington Post ha invece cominciato la sua corsa con un triennio di ritardo, vero, ma sta facendo benissimo.

In otto anni, dall’inizio della gestione Bezos a oggi, gli abbonati digitali al Post sono cresciuti da 35.000 a oltre 3 milioni, con tassi di crescita sempre molto sostenuti (+145% tra 2015 e 2016, +50% tra 2019 e 2020).

Nel post-Trump, entrambe le testate hanno sperimentato con politiche aggressive di prezzo, soprattutto a favore dei lettori internazionali, nel tentativo di tenere alti i tassi di acquisizione di nuovi clienti.

Nel momento in cui scrivo, un anno di abbonamento ‘base’ al sito del Washington Post dall’Italia costa solo €20, con rinnovo a prezzo pieno fissato a €85, mentre l’offerta del New York Times parte da €26, per poi diventare €104 allo scadere dei primi dodici mesi.

In territorio americano, grazie al suo proprietario, il Post può vantare un’arma in più. I 141 milioni di americani abbonati ad Amazon Prime, infatti, accedono a un’offerta speciale: sei mesi di accesso gratuito, per poi pagare appena $3.99 al mese.

Se oggi il Times risulta essere più avanti nella corsa alle subscription – nel 2020 per la prima volta i ricavi dagli abbonamenti digitali hanno superato quelli dal fisico – i tassi di crescita dei due giornali sono assolutamente paragonabili, come si evince da questa analisi di Axios.

● Chi vince? Non c’è dubbio: il New York Times. Ma anche il Post sta viaggiando a ritmi vertiginosi. Nessuno si può lamentare, in fondo: secondo quanto rilevato da Reuters, entrambe le testate contano più abbonati di tutti i giornali locali d’America messi insieme. E proprio grazie agli abbonamenti entrambe sono tornati a registrare profitti dopo anni di magra.

Sfida 2 → L’audience globale

Da Bob Woodward a Carl Bernstein a David Farenthold, il Washington Post ha costruito la sua fama sulle grandi firme, in grado di inchiodare i governi e ispirare film di successo.

Non che la storia del Times sia priva di enormi talenti del giornalismo, figuriamoci: ma non molti di loro sono stati in grado di diventare delle vere e proprie star internazionali.

Tant’è che il più noto giornalista tra le fila del Times è oggi probabilmente Michael Barbaro, che conduce il podcast quotidiano The Daily.

Tuttavia, sebbene il Washington Post sia in tutto il pianeta sinonimo di “grande giornalismo d’inchiesta”, è il New York Times il brand che vanta la maggiore reach globale: ogni mese il Times attrae più di 150 milioni di lettori non americani, contro i 40 del Washington Post.

Questo si riflette anche negli abbonamenti internazionali: al momento, il 9% per cento dei subscriber digitali del Washington Post è extra-USA, contro il 18% del New York Times — il doppio.

Anche qui, tuttavia, il Post non molla. In primavera ha annunciato l’avvio una nuova strategia di espansione, che prevede l’apertura di 4 nuovi uffici internazionali nel corso del 2021in città come Seoul, Sydney e Bogotá.

Inoltre, la nomina di Sally Buzbee a nuova direttrice, prima donna alla guida del giornale, è un altro segnale.

Buzbee, infatti, si è fatta le ossa gestendo la redazione internazionale dell’Associated Press — e cercherà di iniettare un ‘dna globale’ all’interno di un giornale che, fino a non molto tempo fa, si definiva for and about Washington.

● Chi vince? Il New York Times è sicuramente in vantaggio, ma la sfida è apertissima, soprattutto nel mondo post-Trump in cui le certezze dell’ultimo quinquennio sembrano improvvisamente farsi più fragili. Staremo a vedere.

Sfida 3 → Strategia di prodotto

Diversificare le proprie linee di business, per un media che desidera sopravvivere, è fondamentale.

Il New York Times negli ultimi anni ha adottato una strategia chiarissima: creare sotto-brand dotati di vita propria, efficaci nell’attrare un pubblico di abbonati che trascenda il semplice ‘giornale’.

E sta pagando: il 46% dei nuovi abbonati digitali al Times nel 2020 è arrivato da prodotti come Cooking (un sito e un’app di ricette) e Crosswords (l’app dedicata ai giochi di enigmistica), oppure ancora dai podcast.

Inoltre l’azienda guidata dal 41enne A.G. Sulzberger sta per rendere disponibile una modalità di sottoscrizione per Wirecutter, il suo brand dedicato alle recensioni di tecnologia consumer.

I prossimi passi riguarderanno, pare, il mondo delle famiglie, con il possibile lancio di abbonamenti verticali dedicati ai genitori (Parenting) e ai loro figli (Kids).

Dal punto di vista della revenue generation, i sottobrand del Washington Post non possono competere con quelli del Times.

Se guardiamo a The Lily (portale con focus sulle tematiche di genere), a Launcher (videogiochi) o a By The Way (viaggi), è subito chiaro che si tratta di progetti riusciti solo a metà.

Alla strategia di brand extension editoriale messa in atto dal Times, tuttavia, il Post ha preferito un approccio diverso, più tech, in linea con il dna del suo ingombrante proprietario.

Negli ultimi anni, infatti, il giornale di Jeff Bezos ha lanciato due prodotti software che operano come linee di business separate dal resto del giornale.

Il primo caso è quello di Arc Publishing, il CMS (sistema di gestione dei contenuti) creato per servire i bisogni dei giornalisti della redazione e poi venduto in licenza ad altre testate, è oggi il terzo flusso di ricavi dell’azienda, con 1400 clienti e un introito stimato vicino ai 100 milioni.

Il secondo caso è quello di Zeus Performance, piattaforma di delivery pubblicitaria sviluppata per “fare concorrenza a Google e Facebook” e commercializzata nel 2020, con cui il Post spera di ripetere il successo ottenuto con Arc.

● Chi vince? Dipende dai gusti. Se il Times ha dimostrato di saper creare prodotti editoriali di successo con incredibile facilità, grazie anche a un pubblico estremamente fedele e appassionato, il Post ha capito che non di soli pubblicità e abbonamenti si vive — e ha inventato un modello di monetizzazione radicalmente innovativo.

Sfida 4 → Distribuzione social

Può un giornale fondato nel 1877 essere credibile nel 2021… su TikTok?

Se quel giornale è il Washington Post, la risposta è sì. Ed è una risposta da 1 milione di follower.

Il merito è quello di essere partiti presto, nel maggio del 2019, ma soprattutto dell’ottimo lavoro svolto da Dave Jorgenson, il tiktok guy del giornale.

Con una coraggiosa dose di autoironia – a partire dalla descrizione del profilo: “We are a newspaper” – il Washington Post è stato in grado di attrarre una community interessata ai temi dell’attualità trattandoli in modo leggero e padroneggiando i linguaggi della piattaforma (qualche esempio che mi piace molto qui, qui e qui).

Il New York Times per contro non ha mai aperto un proprio profilo TikTok ufficiale. E in generale, sui social, ha scelto un approccio meno radicale, cercando di replicare lo stile sobrio che lo contraddistingue, anche attraverso l’utilizzo di formati a card magari efficaci ma non troppo innovativi.

Buoni numeri a parte, invece, il Washington Post ha dimostrato di possedere una grande vena innovativa quando si parla di distribuzione dei contenuti. E di puntarci con forza.

Nel 2017 è stato anche il primo giornale a lanciare un proprio profilo su Reddit, la piattaforma di conversazione e aggregazione. Qui, il Post pubblica i propri contenuti con intelligenza cercando di scatenare la discussione sui temi caldi del giorno con gli altri redditor.

Fred Ryan, il ceo del giornale, ha annunciato recentemente il lancio di una task force interna – Next Generation – dedicata a scovare nuovi modi per raggiungere il pubblico più giovane.

Ryan ha anche detto una cosa volendo semplice, ma interessante: “You can have great journalism. But if you cannot get it out to the way people are consuming today and tomorrow, that journalism is not having the impact it could have.”

● Chi vince? Certo, il Times fa numeri più grandi sulle piattaforme mainstream come Instagram e Facebook. Resto però un grande fan dell’approccio del Post sui social, irriverente e fuori dagli schemi.

PS. Piccolo bonus creativo per il Times: ha lanciati una app che ogni giorno invia articoli contenenti ‘buone notizie’ agli iscritti di un workspace su Slack.

Sfida 5 → Tecnologia

Da quando c’è Bezos, il Post ha moltiplicato il numero dei developer al suo interno: l’azienda vanta oggi nel proprio organico una ratio di uno sviluppatore ogni due giornalisti. Cifre impensabili alle nostre latitudini.

I casi di Arc e Zeus, di cui ti ho parlato in precedenza, sono chiarissimi esempi di un’azienda che oggi è tanto content-driven quanto tech-driven — un’amalgama che promette bene per il futuro del giornale.

Dall’altro lato, il modo in cui il Times ha saputo modernizzare il suo sito senza perdere un’unghia del suo iconico branding è da dieci in pagella.

Nella torre della Gray Lady a Midtown, decine di team lavorano alacremente per risolvere i problemi dell’oggi e prepararsi alle sfide del domani.

Basti vedere come quelli del Times si sono mossi per fronteggiare la sparizione dei cookie di terze parti, ripensando la propria struttura di delivery pubblicitaria e sviluppando modelli di machine learning in grado di analizzare i comportamenti degli utenti sulle proprie piattaforme — presentandogli inserzioni pubblicitarie in base ai temi di interesse, o alla reazione emotiva che un contenuto può generare in chi legge.

Il New York Times fa un gran lavoro anche sull’architettura dei contenuti: dai liveblog alle infografiche interattive, tutto funziona a meraviglia.

Ma quello che apprezzo di più del Times è soprattutto il ‘lavoro sporco’, quello che la maggior parte dei giornali considera non prioritario — almeno finché lo diventa per cause di forza maggiore: dalla privacy degli utenti (il giornale ha sviluppato un software che permette di modificare i permessi privacy su 70 prodotti diversi attraverso un’unica interfaccia) allo sviluppo infrastrutturale (il sito è stato riprogettato per reggere picchi elevatissimi di traffico anche in caso di eventi eccezionali).

● Chi vince? Be’, pari e patta. L’approccio tra i due giornali potrà essere diverso, ma è il concetto alla base del ragionamento che convince: ovvero, che nel 2021 non possa esistere un ottimo giornale senza un’ottima struttura tecnologica, in grado di fornire un’esperienza di alto livello ai propri utenti.

Concludendo…

Potrei dirti che il Times resta leggermente avanti nella corsa per diventare il giornale totale, The Everything Newspaper. Ma la competizione è aperta e sta facendo bene a entrambi. Noi restiamo qui, consapevoli di osservare battaglie galattiche di altri universi, ma allo stesso tempo – almeno per quanto mi riguarda – godendoci lo spettacolo.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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