Parliamo di podcast e di Chora Media, con Mario Calabresi

di | 30 Aprile 21

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Con questa canzone dei Grateful Dead: così nacque il podcasting, vent’anni fa, grazie a una serie di incastri particolari.

Il primo a permettere il download automatico di un file audio sul web fu Dave Winer, che lo allegò a una tecnologia esistente: quella dei feed RSS, di cui era stato tra gli inventori. Lui l’aveva battezzato audioblogging.

Il primo vero prodotto audio parlato e distribuito on demand arrivò invece un paio d’anni dopo, grazie a Chris Lydon e al suo seminale programma radiofonico Open Source, considerato a tutti gli effetti “il primo podcast della storia”.

Nota per audiofili: questo era il set-up che Lydon usava per registrare nel 2003. Che dire: non è cambiato poi molto.

Avanti veloce di due decenni. I podcast, un tempo fenomeno di nicchia, sono un’industria globale in forte ascesa.

Sempre di più permeano la nostra attenzione uditiva in spazi – fisici e temporali – un tempo prerogativa della musica e della radio: durante le pulizie di primavera, lo sport, la doccia e gli spostamenti, a piedi o in macchina.

{A questo proposito: sapevi che Spotify sta lanciando un nuovo device brandizzato da agganciare sul cruscotto dell’automobile?}

Le piattaforme di streaming stanno accentrando esperienze tradizionalmente separate – musica, podcast, conversazioni social – negli stessi luoghi virtuali.

Questo sta creando una audio industry molto diversa dalla precedente: un nuovo e spazioso ‘supermercato dell’ascolto’ sui cui scaffali possiamo trovare tante opzioni diverse di intrattenimento per le nostre orecchie.

E in cui c’è sempre maggiore contaminazione tra ascoltare e parlare, grazie anche alla prorompente avanzata del social audio (rip, Clubhouse).
 

Il cuore della contesa, comunque, restano i podcast.

La battaglia per ritagliarsi una posizione di rilievo in questo mercato è apertissima. 

Per misurare la temperatura: solo negli ultimi sette giorni AppleAmazonFacebook e la stessa Spotify hanno annunciato importanti novità nei loro prodotti podcast.

Il trend, come sai, non è solo americano. Anche in Italia i numeri del podcasting sono in crescita.

Nel 2020, secondo Ipsos, ogni mese 8.5 milioni di italiani hanno ascoltato almeno un podcast, +4% rispetto al 2019.

La maggior parte degli editori italiani, oggi, ha una propria linea di contenuti audio on demand. E anche nuovi player come Will Media continuano a scommettere in questa direzione, ampliando la propria offerta.

C’è poi un interessantissimo sottobosco in cui centinaia di creator si muovono in autonomia, offrendo in molti casi prodotti di grande qualità.

E poi, non dimentichiamoci delle podcast company, società che hanno l’obiettivo specifico di diventare editrici di podcast: parlo di realtà come Piano P o Storielibere.fm.

L’ultima arrivata in questa arena è Chora Mediasocietà fondata nell’autunno del 2020 da Mario Calabresi, giornalista, scrittore ed ex direttore de La Stampa e Repubblica, insieme a tre soci: Guido Brera, Mario Gianani e Roberto Zanco.

Al momento a Chora lavora stabilmente una dozzina di persone; la società ha pubblicato finora 7 serie podcast, puntando su nomi già affermati dell’editoria e della mediasfera italiane: da Selvaggia Lucarelli a Caterina Balivo, da Paolo Giordano ad Andrea Delogu.

Per ora, si tratta esclusivamente di podcast in formato longform, quasi sempre compresi tra i 20 e i 35 minuti.

Lo stesso Calabresi è autore e host di una serie intitolata Altre/Storie (come la sua newsletter), in cui alterna interviste e narrazione.

Ma qual è la strategia di Chora? Che cosa dobbiamo aspettarci in futuro? Quali sono i suoi obiettivi?

Per fugare ogni dubbio, mi sembrava una buona idea chiederlo al diretto interessato. Ed eccomi qui, quindi, a parlarne con Mario Calabresi.

 

◼ Ciao Mario, grazie per avere accettato il mio invito. Parto con due curiosità: uno, perché hai deciso di puntare sui podcast? Due, perché solo in formato longform?

{mc} Grazie a te Valerio, e un saluto alle iscritte e agli iscritti di Ellissi.

Nella primavera dello scorso anno, quando con i miei soci, Mario Gianani, Guido Brera e Roberto Zanco, ho iniziato a ragionare sul mondo dell’audio, ci siamo convinti che in Italia ci fosse uno spazio per creare una società che investisse nel comparto, e che lo facesse puntando su formati lunghi e immersivi.

Sono sempre stato un grande amante delle letture lunghe, ma anche convinto che il formato mal si adattasse alle abitudini di fruizione di un quotidiano, dove a volte il longform appare quasi fuori contesto.

In versione audio, invece, il longform trova una sua declinazione più forte: un’intervista di 30-40 minuti, che da leggere risulterebbe troppo lunga, via podcast diventa appassionante e fruibile.

L’audio, inoltre, risponde benissimo al bisogno di fiducia da parte delle persone. La voce infatti è uno strumento potentissimo e intimo, in grado di creare un legame molto forte tra cui parla e chi ascolta.

Non dimentichiamoci, poi, che lo smartphone è uno strumento che nasce attorno all’esperienza audio: oggi ascoltare un podcast è estremamente comodo e piacevole — che tu sia sul tapis roulant, stia cucinando, o facendo un bagno nella vasca.

Tutti quelli che mi scrivono in queste settimane mi dicono: ascolto i podcast di Chora mentre cammino. Forse è anche una risposta a una necessità in tempo di pandemia. La gente passeggia e intanto ascolta podcast. Ma la tendenza è in crescita.

◼ Chora è partita puntando su nomi già affermati e conosciuti. Paolo Giordano, Caterina Balivo, Chiara Gamberale, Enrico Mentana, Selvaggia Lucarelli, Andrea Delogu. Qual è l’idea dietro a questa scelta?

{mc} È parte della nostra strategia di lancio, e lo sarà senz’altro per i primi nove mesi. Ma attenzione: scegliere nomi così conosciuti non ha tanto l’obiettivo di far conoscere Chora al pubblico, quanto piuttosto quello, ambizioso, di allargare il mercato dei podcast in Italia.

Un esempio: i numeri che sta facendo il podcast di Selvaggia (Proprio a me) ci conferma che il formato sta andando a conquistare nuovi ascoltatori, anche persone che fino a ieri non sapevano cosa fossero i podcast, o che non li ascoltavano abitualmente.

Abbiamo individuato due target principali, i lettori di libri e gli appassionati di serie TV. Entrambi questi segmenti hanno due caratteristiche in comune con gli ascoltatori di podcast: la pazienza e l’alto tasso di attenzione. Sono due mondi cui vogliamo rivolgerci.

Per questo ho scelto Paolo Giordano e Chiara Gamberale, ad esempio. E sempre per questa ragione stiamo per lanciare una nuova serie condotta da Sandro Veronesi.

◼ Pensi che in futuro darete spazio anche a podcast creator meno conosciuti, o che arrivano da mondi diversi?

{mc} Sì, senza dubbio. Abbiamo creato questa bellissima ‘nicchia’ di personalità del mondo della cultura, dell’editoria e di spettacolo, con l’obiettivo di avvicinare più persone possibili ai podcast. Quello che uscirà dall’autunno in poi, invece, darà anche spazio a talenti che non rientrano in questo schema; il fatto che la persona che conduce il podcast sia già conosciuta o meno non conterà così tanto.

◼ Al momento, molte delle storie raccontate da Chora sono personali, o comunque hanno una forte componente narrativa. Recentemente avete assunto Francesca Milano, che coordinava i podcast de Il Sole 24 Ore tra cui Start, un daily di grande successo. L’obiettivo è dare spazio anche alle news?

{mc} Ci sarà sicuramente spazio per l’attualità, ma fatta alla nostra maniera. Non siamo focalizzati su podcast quotidiani, preferiamo analizzare quello che succede con un passo più lento. Più che un daily, penso a un weekly.

I podcast hanno dimostrato di avere una coda molto lunga; ancora oggi c’è chi scopre e ascolta con grandissimo interesse Veleno di Pablo Trincia (uscita nel 2017 su Repubblica, e che a breve diventerà una serie tv per Amazon). Per Chora, in questo momento, ha poco senso produrre contenuti che si bruciano in un giorno.

◼ L’industria dei podcast, come sottolineavi, si sta espandendo. Temi la competizione?

{mc} Guarda, noi stiamo facendo la corsa su noi stessi. Non perché non ci siano competitor diretti, ma perché il mercato è ancora una prateria. C’è un sacco di spazio. Se arriva qualcun altro domani e mi dice ‘anche noi facciamo i podcast’ non lo vivo come un problema, ma come un fattore positivo. Non puoi fare tutto da solo: più realtà entrano in gioco, più il mercato si allarga. Per tutti. E quando il mercato si sarà espanso a sufficienza, credo che a vincere saranno quelli che offriranno i contenuti migliori.

◼ Veniamo alla parte che come sai mi interessa di più: il modello di business. I podcast di Chora sono gratis. Uno di questi (‘Nodi’ di Andrea Delogu) è stato sponsorizzato dalla casa farmaceutica Angelini. Su cosa punta Chora per sostenersi?

{mc} All’interno di Chora oggi abbiamo sostanzialmente due divisioni: una si occupa di prodotti editoriali per il grande pubblico, la seconda invece è focalizzata sul branded content, sui podcast sponsorizzati o per le aziende, guidata da Sara Poma. Ci interessa la pubblicità, ma fatta a modo nostro; per esempio, offrendo la possibilità di sponsorizzare un’intera serie, come nel caso di Nodi.

In secondo luogo, ci occupiamo di produrre podcast che raccontino le aziende, le loro storie e i loro valori. Per farti un esempio, abbiamo realizzato una serie in inglese per Generali e i suoi 190 anni di storia, destinata ad un uso interno.

 Stai riscontrando apertura ai podcast da parte delle aziende?

{mc} Sì, ho trovato un mercato estremamente ricettivo e interessato, anche al di sopra delle mie aspettative.

◼ Quali altre fonti di ricavo hai in mente per Chora?

{mc} Sicuramente vogliamo produrre serie podcast per le piattaforme di streaming, portando il nostro marchio, la nostra linea editoriale, le nostre voci. Infine c’è tutto il tema dei diritti: un podcast può essere trasformato in un libro, in un film, in una serie tv.

◼ Per ora le subscription non sono un’opzione concreta, quindi?

{mc} Non lo sono, ed è stata una decisione presa a monte. Avremmo potuto lanciare la nostra app e gestire gli abbonamenti, ma non è il nostro mestiere. Noi facciamo contenuti. Non siamo una piattaforma distributiva. Quelle ci sono già. Faremo comunque una piccola prova in questo senso con Apple Podcast, ma si tratterà di un singolo esperimento, per ora.

◼ Ci sta. Secondo il vostro business plan, tra quanto prevedete di andare a break-even?

Ci eravamo dati come obiettivo il terzo anno, ma siamo sulla buona strada per farcela in anticipo. Incrociamo le dita.

◼ Ok. Ti chiedo un’ultima cosa, che esula dal discorso podcast. Su Ellissi parlo spesso di creator economy e della competizione ‘nuova’ creata da giornalisti e autori che cercano di costruirsi un proprio pubblico al di fuori delle testate tradizionali, monetizzandolo attraverso le piattaforme.

Negli Stati Uniti anche i grandi giornali stanno combattendo una vera e propria guerra dei talenti, creando policy ad hoc per prevenire un’esodo di firme verso Substack o Spotify. Da ex direttore di giornale, oggi diventato imprenditore nel settore audio, come vedi questa situazione?

{mc} È un tema fondamentale, e credo meriterebbe una discussione e una chiacchierata approfondita. Mi ricordo che già se ne discuteva a La Stampa, ormai 7-8 anni fa, quando c’era questa esplosione di personalità su Twitter, con alcuni giornalisti in grado di attrarre un grande following.

La domanda è rimasta la stessa, in fondo: fino a che punto queste firme dovrebbero essere legate esclusivamente alla testata per cui lavorano? Quanto, al contrario, dare loro ampio spazio di manovra al di fuori della redazione può generare benefici al giornale stesso?

A quel tempo, in Italia, ci fu chi cercò di contrastare questa tendenza creando dei blog personali all’interno delle testate. Ma quei blog venivano affidati un po’ a tutti, indistintamente, non solo a chi aveva un’idea editoriale forte. Così ti ritrovavi con una parte di quei siti che venivano aggiornati senza regolarità, o abbandonati dopo pochi mesi. La maggior parte dei blog morì in una palude.

Io ho sempre creduto che avere una pluralità di voci portasse ricchezza al giornale, e scelsi di non impedire che questo avvenisse. Ma oggi è ancora più complicato: l’attrattiva generata dal poter liberare la propria individualità online è forte. È difficile impedire questa diaspora, anche perché oggi le persone tendono a fidarsi più del singolo giornalista che della testata nella sua interezza.

I giornali dovrebbero forse cercare di valorizzare la pluralità delle proprie voci al loro interno, enfatizzando il loro lavoro e la propria personalità, e facendo in modo che queste voci vadano a costruire l’identità collettiva della testata. Nella maggior parte dei casi, però, ancora oggi, è il contrario: la ricerca di un’identità collettiva porta inevitabilmente a soffocare la pluralità delle voci. E culturalmente è una sfida molto grossa. Forse troppo.

Grazie Mario. E anche per oggi è tutto. 

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

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