La sindrome dello schermo nero

di | 26 Marzo 2021

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Immagina questo.

È il 2022, è domenica sera, ti trovi a New York. La pandemia è finita: ce l’abbiamo fatta.

E in tv sta per cominciare la finale del Superbowl.

D’un tratto, gli schermi di tutto il mondo si spengono.

Televisioni, computer, smartphone, persino i monitor degli aerei. Tutto nero. Tutto, improvvisamente, silenzioso.

È la fine della tecnologia causata da un cataclisma non meglio specificato — un gigantesco blackout, un attacco hacker, un collasso nucleare?

Parte da qui il nuovo romanzo di Don De Lillo, che ho finito qualche ora fa. 

Si legge in un’oretta e mezza e, nonostante il tema, non è un canonico racconto di fantascienza.

Il Silenzio è una riflessione molto umana sul tema dell’incomunicabilità e della nostra relazione con la tecnologia.

Protagonisti sono cinque personaggi che, isolati nella ‘semioscurità emotiva’ causata dall’improvviso spegnimento di ogni device, si ritrovano a fare i conti con un’ennesima, imprevista nuova normalità.

“A quanto pare tutti gli schermi, ovunque, si sono svuotati. Cosa ci resta da vedere, da sentire, da provare?”.

I dialoghi dei personaggi si disintegrano progressivamente con l’avanzare del libro, fino a diventare monologhi autoriferiti — in cui ognuno parla, ma nessuno realmente ascolta.

Il mondo degli schermi, sembra dire De Lillo, ha incasinato le relazioni. Così tanto che, nel mondo senza schermi, non sappiamo più parlarci. È un po’ come se si fosse spento un orizzonte, e gli occhi non sapessero più dove puntare.

Non a caso, il primo dialogo del libro inizia con una parola ben precisa: “Guarda”.

Il Silenzio, pur parlando di futuro e tecnologia, è stato scritto su una vecchia macchina da scrivere da un ottantaquattrenne che non ha mai posseduto uno smartphone.

Forse è proprio questo distacco che consente a De Lillo di immaginare un’apocalisse tecnologicamente banale, ma senza mai banalizzarla?

In passato, lo scrittore americano ha definito i decenni successivi all’omicidio Kennedy come l’era della paranoia, caratterizzata dalla paura di un conflitto mondiale e dell’escalation nucleare.

L’età della paranoia si sarebbe dovuta concludere con un loud bang, un’esplosione potentissima, che avrebbe messo a repentaglio l’umanità intera.

Oggi quell’età paranoica si è conclusa, dice lui (io non ne sono così convinto, ma ok Don).

La ‘nuova’ apocalisse descritta da De Lillo è una catastrofe diversa — silenziosa, rallentata, buia.

Post-comunicazionale. E, letteralmente, post-internet.

In un articolo pubblicato dal The Atlantic nel 2016 e intitolato “Come sarebbe il mondo senza internet?” Clay Shirky, uno dei più lucidi analisti della comunicazione, provava a ragionare sulle conseguenze di uno scenario simile a quello descritto da De Lillo.

“Le uniche visioni post-internet credibili sono legate al collasso della civiltà: apocalissi zombie, catastrofi nucleari” e, aggiungeva con una certa lungimiranza, “pandemie globali”.

Il messaggio sottinteso in tutti questi futuri catastrofici, aggiungeva Shirky, è che “internet è diventato la nostra civiltà”. Senza la rete, siamo persi.

E in effetti il nostro mondo è così tanto sorretto dall’impalcatura di internet che è difficile immaginare come possa sopravvivere alla sua scomparsa.

Come scrivevo quasi un anno fa in Back to The Future, un ebook gratuito pubblicato da Be Unsocial:

“L’emergenza ci ha insegnato che internet è la nostra safety net: il fluido che permette di collegare le terre emerse delle nostre relazioni, preservando lavoro, affetti, salute fisica e mentale. Arcipelaghi che possono esistere e funzionare solo in relazione tra loro, soprattutto in condizioni estreme.”

Ed è proprio per questo, concludevo, che “anche per superare la prossima crisi avremo bisogno di internet.”

In un recente numero di Internazionale, lo storico e scrittore Yuval Noah Harari poneva una domanda assolutamente centrale:

“Provate a immaginare cosa succederebbe se la nostra infrastruttura digitale si arrestasse in modo anomalo. La tecnologia dell’informazione ci ha reso più capaci di reagire di fronte ai virus, ma anche molto più vulnerabili alle minacce e alle guerre informatiche. Molti si chiedono quale sarà il prossimo covid. Un attacco alla nostra infrastruttura digitale è uno dei candidati principali”.

Ho ripensato a tutto questo non solo leggendo il libro di De Lillo, ma anche la recente notizia dell’incendio divampato in uno dei datacenter di OVH, tra i principali provider di hosting web d’Europa.

In seguito all’incidente, avvenuto a Strasburgo, centinaia di siti sono andati offline, e molte informazioni sono andate perdute per sempre.

La notizia mi ha scosso, non solo perché mi ha fatto rendere conto per l’ennesima volta di quanto sia ‘fisico’ il nostro ‘digitale’ – è forse questo il vero phygital? – ma anche perché OVH è anche il servizio che ospita il sito di questa newsletter (ansia).

Un thriller simile è andato in scena negli ultimi mesi, quando 150 anni di archivio storico de La Stampa hanno rischiato di scomparire dopo essersi ritrovati incastrati tra una tecnologia obsoleta (Flash) e un “limbo proprietario e gestionale”, come lo ha definito Mario Tedeschini-Lalli, che per primo ha denunciato la situazione di pericolo.

Per fortuna è finita bene.

Le nostre infrastrutture digitali, oggi, sopravvivono perché sono di vitale importanza commerciale per aziende e soggetti privati. E se questo interesse commerciale venisse meno? 

Cosa succederebbe se fallisse la società che oggi gestisce le tue email, i tuoi album fotografici, le tue password e i tuoi dati personali?

E se fallissero le società che ti forniscono le informazioni di cui hai bisogno per comprendere il mondo?

Così come tendiamo a dare internet per scontata, facciamo lo stesso con l’informazione — la quale semplicemente ‘esiste’, si trova a un click di distanza da noi, ed è ancora in larga parte gratuita.

Un mondo senza internet sarebbe un mondo senza informazione. Cosa succederebbe alla nostra conoscenza se tutti gli schermi diventassero neri?

De Lillo spiega che rischieremmo di ritrovarci con “il senso dell’orientamento gravemente compromesso”.

Lo scrittore americano individua anche una causa: “Un eccesso di cose generato da un codice sorgente troppo limitato”.

Ed è proprio il motivo per cui dovremmo pensare, fin da oggi, a come proteggere le nostre infrastrutture digitali.

Mentre ci penso vado a farmi un caffè, e un backup dell’archivio di questa newsletter. 

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

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