L’effetto framing
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Ogni produttore di yogurt ha due opzioni per comunicare al cliente la quantità di grassi contenuti all’interno del barattolo.
La prima è: “Questo yogurt contiene il 10% di grassi”. La seconda, opposta: “Questo yogurt è per il 90% privo di grassi”.
Quale ti sembra più convincente? Quale ti spingerebbe ad acquistare quello yogurt?
Qualunque sia la tua opinione al riguardo, quello che ti ho appena descritto è un classico esempio di framing: modificare il modo in cui un’informazione viene comunicata per influenzare il pensiero, o il processo decisionale, delle persone.
Sole che splende o meteorite?
Framing significa, letteralmente, ‘incorniciare’. Scegliere una narrativa anziché un’altra per incanalare la nostra attenzione verso qualcosa—o per distoglierla da qualcos’altro.
Questa tecnica è utilizzata – più o meno consapevolmente – anche nel giornalismo, un settore particolarmente esposto ai bias cognitivi.
Paul Bradshaw spiega infatti che troppo spesso i media spingono gli utenti a “prendere decisioni velocemente” ed “elaborare una quantità eccessiva di informazioni”, rendendoli così vulnerabili al framing messo in atto da chi quell’informazione la diffonde.
Nel 1992 Suzanne Fogel, docente ed esperta di marketing, scriveva che i lettori “cercano di estrarre l’essenza delle informazioni”, e che, quando la loro attenzione viene indirizzata verso “un singolo attributo o fattore”, tenderanno a prendere una decisione che si basa unicamente su quell’elemento.
Cornici diverse possono cambiare radicalmente la percezione di una notizia, come in questo caso esemplare di due testate dello stesso gruppo, Fox Latino e Fox News:
Frame 1: “Soldi agli irregolari”
Frame 2: “Università offre 22.000 dollari a uno studente senza permesso di soggiorno”
Questa settimana, sia la Columbia Journalism Review che Nieman Lab hanno citato il brillante lavoro di analisi svolto da Danielle Kilgo, professoressa di giornalismo all’Università del Minnesota.
Dopo avere analizzato la copertura giornalistica ricevuta dai movimenti di protesta sparsi per gli Stati Uniti nel corso del 2017 – da quelli per i diritti delle donne ai cortei degli afroamericani e dei nativi americani – Kilgo ha potuto dimostrare che i media raccontano manifestazioni e contestazioni applicando sempre la stessa cornice: danno più spazio al punto di vista delle istituzioni, delle forze dell’ordine e del potere. In sintesi, difendono lo status quo.
Secondo Kilgo, oltre metà degli articoli analizzati tendeva a drammatizzare le proteste, o le raccontava usando toni sensazionalistici e fuorvianti.
L’analisi evidenzia come il 43% della copertura mediatica si fosse focalizzata sui disagi causati dai manifestanti al resto della popolazione: cassonetti incendiati, scritte sui muri e rallentamenti al traffico. Il frame delle proteste come elemento di turbamento di una sottintesa “normalità” fatta di vetrine intatte e di quiete pubblica.
Il 25% degli articoli presi in esame poneva invece l’accento sui fenomeni violenti – come gli arresti o gli scontri fisici tra manifestanti e polizia – finendo così per dargli un peso maggiore rispetto a quello reale.
Solo il 22% degli articoli analizzati, invece, approfondiva il vero tema chiave della ‘storia’, e cioè le richieste dei manifestanti o le problematiche sociali che avevano spinto quelle persone a scendere in piazza in cerca di un cambiamento.
Un bias che – cosa ancora più grave – si accentuava soprattutto quando le proteste vertevano attorno ai temi considerati più divisivi, come quelli sollevati dalle persone di colore o dai nativi americani.
Tra gli altri elementi, Kilgo sottolinea in particolare l’utilizzo eccessivo della parola clashes, “scontri”: un termine che sottintende un approccio aggressivo e belligerante dei manifestanti e che automaticamente sposta su di loro il peso dell’atto violento—quando invece, nella grande maggioranza dei casi, le collutazioni erano state scatenate da prove di forza messe in atto dalla polizia contro dimostranti disarmati.
Simili dinamiche giornalistiche si stanno ripresentando in queste ultime settimane nella copertura mediatica delle proteste nate in seguito all’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto a Minneapolis.
All’inizio di giugno, in seguito a un’ondata di contestazioni di Black Lives Matter a Philadelphia, il più importante quotidiano locale titolava a tutta pagina Buildings Matter, Too (“Anche gli edifici sono importanti”), nel tentativo di orientare il dibattito pubblico sui danni causati ai palazzi del centro cittadino, anziché sui problemi che avevano generato la protesta:
{Nota: nei giorni successivi l’Inquirer ha definito il titolo ‘un orribile errore’ e il direttore Stan Wischnowski si è dimesso. Resta un esempio chiarissimo di framing.}
Succede anche il contrario, comunque. In queste settimane negli Stati Uniti c’è chi ha cercato di raccontare la realtà attraverso una cornice diversa.
Come la testata online Slate, che ha pubblicato un articolo – molto condiviso sui social – dal titolo Police erupt in violence nationwide (“La violenza della polizia esplode in tutto il paese”).
O come The Verge, che ha titolato “The protest was peaceful — then the cops arrived” (“La protesta era pacifica, poi sono arrivati i poliziotti”).
A volte, per contrastare il rischio di framing, può essere utile invertire il soggetto della narrazione, sforzandosi di cambiare la prospettiva. Alcuni la chiamerebbero, semplicemente, empatia.
Altre volte, invece, servono interventi più radicali: come ripensare le fonti utilizzate nel lavoro giornalistico, diversificare le redazioni – includendo voci che non rappresentino lo status quo, per esempio – o (im)porsi qualche domanda “scomoda” (questo articolo contiene indicazioni interessanti su come de-costruire la cornice narrativa dominante).
Capiamoci: credo sia impossibile annullare completamente l’effetto framing (che peraltro, in molti casi, non viene applicato consapevolmente, né con intento manipolatorio): l’idea che tutte le notizie siano trasmesse senza filtro è piuttosto irrealistica.
Inoltre, ritengo che parte della missione del giornalismo sia quella di ‘dare un senso’ agli eventi, cercando di rendere comprensibili ai lettori le dinamiche di una società complessa.
Credo però anche che sia necessario avere una maggiore consapevolezza degli approcci narrativi che utilizziamo per descrivere e riportare i fatti dell’attualità.
Ce n’è bisogno: secondo un sondaggio pubblicato nel Digital News Report 2020 del Reuters Institute di Oxford, il 65% degli italiani intervistati vorrebbe un’informazione neutrale, meno viziata dai “punti di vista”.
Ti chiedo: quante volte, quando racconti qualcosa, utilizzi più o meno consapevolmente l’effetto framing? A me capita, probabilmente più di quanto penso. Cercherò di mettermi maggiormente in discussione.
Alla prossima Ellissi
Valerio
Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.
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