10 media company innovative da tutto il mondo

di | 17 Dicembre 2021

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di Valerio Bassan su media
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Ogni mese scopro decine di brillanti storie di innovazione legate al mondo del giornalismo, provenienti da ogni parte del mondo.

Molte di queste storie però non finiscono all’interno di Ellissi. Perché?

Da un lato, inutile negarlo, c’è un problema di spazio: come immaginerai, avere una newsletter settimanale mi costringe a fare delle scelte.

C’è un altro motivo, però, e me ne assumo tutta la responsabilità: quella, cioè, di avere una prospettiva che spesso è troppo “occidentale”.

Non mi sono messo a rileggere tutte le newsletter del 2021, ma credo di avere menzionato il New York Times più volte di tutti gli altri giornali del pianeta messi assieme (e, come se non bastasse, oggi lo faccio di nuovo).

Così, in questa ultima Ellissi del 2021, ho deciso di mettere in fila 10 media company che spaccano, provenienti da diverse aree del mondo: Africa, Asia, Est Europa, Sudamerica. Realtà di cui si parla oggettivamente poco, ma che stanno facendo qualcosa di bello per le loro audience.

Aggiungo anche un buon proposito: ti prometto anche che uno dei miei sforzi nel 2022 sarà quello di dare a Ellissi un focus un po’ meno europeo e americano. Sono convinto che ci siano tantissime lezioni da imparare – e ispirazioni da prendere – anche da realtà che percepiamo come più “lontane” da noi.

In fondo è solo una questione di percezione. Ma le sfide del giornalismo sono molto più globali che locali.

Così come è una percezione quella che induce a pensare che “quelli bravi” siano sempre gli stessi.

Ecco, non è così: proviamo a scoprirlo insieme.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Eccoci, dunque, con le dieci media company di cui (forse) non hai mai sentito parlare, in rigorosissimo ordine alfabetico.

1. Denník N
📍 Slovacchia

Nel 2014, il maggiore quotidiano della Slovacchia fu acquistato da un fondo di investimento riconducibile a un oligarca, su cui la redazione aveva investigato a lungo. Per tutta risposta, un gruppo di 50 giornalisti si dimise e lanciò una testata rivale, Denník N, poi diventata uno dei casi giornalistici di maggior successo in Europa. Oggi Denník N ha oltre cento dipendenti, 65.000 abbonati digitali e ha chiuso il 2020 con un profitto di oltre un milione di euro. Inoltre, Denník N ha sviluppato una serie di strumenti per aumentare i tassi di reader engagement e di conversione degli utenti, ora disponibili in una suite open source utilizzata da oltre 30 editori in tutto il mondo.

2. Echo
📍 Tailandia

Echo è una media company tailandese fondata nel 2018 che si rivolge soprattutto alla generazione zeta. Tramite i suoi video di qualità, organizzati in playlist tematiche, si occupa di temi e storie generalmente considerati tabù nel dibattito pubblico del paese. Echo utilizza i dati per guidare le sue scelte editoriali e per fornire un servizio migliore agli inserzionisti. In una frase: “Content and data is king”, come ha spiegato recentemente il fondatore Rittikorn Mahakhachabhorn.

3. G7.hu
📍 Ungheria

G7 è una piattaforma no-profit ungherese fondata nel 2017 che mira a offrire approfondimenti su temi economici e sociali a un target di pubblico solitamente poco interessato a questi argomenti. I suoi pilastri sono il data journalism, le inchieste e il giornalismo explanatory. L’azienda beneficia di investimenti privati, ma offre anche la possibilità di donare: i sostenitori sono circa 500. Nel 2019 ha trasformato i suoi podcast in eventi dal vivo: un modo per conoscere meglio il proprio pubblico e per generare incassi (per accedere ai live podcast di G7 bisogna pagare un biglietto d’ingresso).

4. New Naratif
📍 Sud-est Asiatico

Pur avendo una redazione disseminata tra Indonesia, Cambogia, Tailandia e Singapore, New Naratif ha sede a Oxford, come progetto pubblicato dal Southeast Asia Observatory. Si definisce un “movimento per la democrazia e per la libertà di informazione nel Sud-est Asiatico”. Interessante è, soprattutto, il metodo con cui ha investigato i bisogni della sua audience — semplice, efficace e facilmente replicabile. Tra le altre cose, New Naratif ha scoperto che i suoi utenti più fedeli sono disposti ad abbonarsi se, in cambio, la testata offre una subscription gratuita a chi non può permettersela. Membership at its best.

5. Oxpeckers
📍 Sudafrica

Oxpeckers è la prima unità investigativa no-profit africana dedicata al giornalismo ambientale. Attraverso analisi e dati e tecniche avanzate di geo-mappatura, il team guidato dalla giornalista Fiona Macleod è in grado di tracciare e denunciare organizzazioni criminali che sfruttano illegalmente le risorse naturali per il proprio profitto. Oxpeckers pubblica e aggiorna una serie di mappe che tracciano le attività illecite di aziende e governi su temi legati al rispetto dell’ambiente, agli animali e al clima.

6. Outriders
📍 Polonia

Outriders è un magazine digitale no-profit polacco, lanciato nel 2017 al termine di un crowdfunding che ha attirato 630 donatori. Si occupa di temi sociali – migrazioni, tecnologia, ambiente – con un approccio solution-driven. I suoi prodotti di punta sono dei magazine tematici ‘disseminati’ (pubblicati sotto forma di newsletter, vlog e podcast) e un festival annuale a pagamento. Inoltre, Outriders ha fondato un’agenzia – Outriders Mixer – che sviluppa progetti multimediali per aziende i cui valori si allineano a quelli della testata.

7. Red/Acción
📍 Argentina

Red/Acción è una piattaforma di informazione lanciata nel 2018 in Argentina dall’ex direttore de La Nación, Chani Guyot. La sua copertura giornalistica si concentra su temi come la crisi climatica, l’uguaglianza di genere, l’educazione e l’inclusione sociale — e lo fa attraverso formati innovativi che uniscono testo, podcast, gif e video. Il 70% del suo pubblico è composto da donne e le sue newsletter hanno oltre 50.000 iscritti. Il suo programma di membership è davvero molto ben fatto. Ha da poco lanciato Fibra, un’agenzia interna che sviluppa progetti di comunicazione ad alto impatto sociale.

8. Scrolla
📍 Sudafrica

Scrolla è una media company lanciata nel 2019 in Sudafrica sulla base di un’intuizione interessante: offrire buon giornalismo a persone “con poche risorse e sprovviste di smartphone di ultima generazione”. In Africa, dove il traffico web è soprattutto mobile, è spesso difficile avere una connessione dati affidabile — inoltre, i costi dei piani internet sono tra i più alti al mondo. Così, l’azienda ha sviluppato un sito mobile-first che consuma pochissimi dati, permettendo di caricare le pagine anche in situazioni di connessione debole. Circa il 40% dei lettori di Scrolla hanno tra i 25 e i 35 anni. Scrolla si sta per espandere anche in altri paesi, tra cui Nigeria e Ghana.

9. Sentiido
📍 Colombia

Sentiido è un progetto no profit lanciato in Colombia nel 2011 e dedicato ai temi LGBTIQ. Nato inizialmente come un blog (si chiamava “Sentido Contrario”), oggi è una media company indipendente che pubblica storie, analisi e inchieste per un pubblico di lettori e lettrici sempre più ampio. Il design del sito è davvero molto bello; inoltre, Sentiido offre corsi di formazione per aziende, istituzioni e associazioni che vogliono sviluppare strategie di comunicazione più etiche e inclusive a livello sociale.

10. The Ken
📍 India

The Ken è una testata online fondata nel 2016 in India, a Bangalore, che si occupa dell’intersezione tra tecnologia, business e sanità. Il suo modello è piuttosto unico: pubblica un solo articolo al giorno e l’accesso è riservato agli abbonati, che oggi sono circa 300.000. Le sue 13 newsletter rappresentano il principale canale di acquisizione. Da circa un anno l’azienda ha lanciato la propria espansione nel Sud-est Asiatico, sperando di replicare il successo visto in India.

{vb} Giulia, grazie di avere accettato il mio invito. Come ti trovi al Guardian?

{gc} Ciao, grazie a te! Lavorare qui è molto bello: a livello etico il Guardian si allinea perfettamente ai valori in cui credo. L’idea di contribuire alla missione di questo giornale mi fa sentire fiera del mio lavoro.

Il team che coordini è nato da poco, giusto?

Sei mesi fa. Prima c’erano dei team separati: abbiamo deciso di unirci per cercare di abbattere i silos aziendali e favorire la collaborazione tra le figure che presidiano i diversi canali: sito e app, email e off-platform.

Questo ha stravolto in positivo il nostro modo di lavorare. Ora per esempio abbiamo obiettivi di team e non più legati al singolo canale: non si sente più dire “io devo fare 100” o “io devo fare 200”: ora tutti insieme dobbiamo fare 1000.

Al momento il team è composto da una dozzina di persone, che diventeranno quindici nel 2022.

Il Guardian ha adottato un modello aperto, senza paywall. Una scelta rara. Come influisce questo sulle vostre strategie?

Il fatto di essere open ci dà la possibilità di parlare a un pubblico gigantesco e globale: il sito raggiunge circa 50 milioni di browser unici alla settimana e i nostri sostenitori arrivano da 180 paesi diversi. Abbiamo questo grandissimo upper funnel gratuito, che si porta dietro anche una certa quantità di free rider.

Questo ci costringe a rendere più sofisticato il modo in cui cerchiamo di raggiungere le nostre audience. La sfida è cogliere i giusti segnali per capire chi sono le persone già propense a sostenere il Guardian e inviargli dei messaggi convincenti al momento giusto.

Che strumenti avete per calcolare la propensity alla donazione?

Abbiamo sviluppato dei modelli che dialogano con il nostro software di analytics interno, Ophan, e che si basano su un nostro engagement score proprietario.

Interessante. E quali dati vengono analizzati dall’engagement score?

Guarda, è un po’ il nostro Sacro Graal (ride). Qualche anno fa, quando iniziammo a sperimentare, tracciava solo il numero di pagine viste e il tempo attivo di lettura, quello che chiamiamo attention time. Oggi raccoglie circa una trentina di segnali e riesce a osservare come si evolve l’interazione di un utente nel tempo, su quali piattaforme avviene, su quali prodotti e canali. È davvero molto sofisticato.

In futuro, come ben sappiamo, i dati di prima parte diventeranno ancora più importanti. Quali strategie utilizzate oggi per spingere gli utenti anonimi a registrarsi?

Al momento non abbiamo una strategia univoca sul flusso anonymous to known — anche se in azienda siamo tutti concordi sulla necessità di aumentare la nostra base di utenti registrati.

Come primo passo, renderemo necessaria la registrazione su ogni tipo di donazione: al momento infatti è possibile supportare il Guardian senza registrarsi.

Abbiamo iniziato a sperimentare con dei sign-in gate, cioè delle maschere di blocco negli articoli che chiedono all’utente di accedere al sito per continuare a leggere (eccone un esempio).

Non è pericoloso introdurre un elemento di frizione su un modello aperto come il vostro?

Un po’, infatti cerchiamo di spiegare nel modo più chiaro possibile agli utenti che non si tratta di un paywall, né di un primo step verso un paywall. Nonostante questo riceviamo quotidianamente email, telefonate, tweet, lettere minatorie (ride).

L’obiettivo a tendere è che queste call to action vengano mostrate solo agli utenti più attivi e non a tutti. Di solito chi ha un engagement score più elevato capisce meglio perché gli stiamo chiedendo di registrarsi.

Perché sa che quel piccolo gesto, in fondo, permette al giornale di lavorare meglio.

Esatto.

Si può sostenere il Guardian con una donazione ricorrente, oppure sottoscrivendo un abbonamento all’app. In alternativa si può effettuare una donazione libera, una tantum. Questo tipo di sostegno estemporaneo non rappresenta un’occasione persa? Non c’è il rischio di lasciare per strada potenziali sostenitori ricorrenti, e quindi potenziali revenue?

Ottima domanda. La risposta, in breve, è sì: le donazioni una tantum sono una delle maggiori brand challenge che abbiamo in questo momento.

Dall’altro lato, però, la donazione libera ci permette di aprirci a tantissimi mercati globali i cui utenti non sono ancora pronti a sostenerci in modo ricorrente.

E non dimentichiamoci una cosa: succede spesso che questi donatori tornino più volte, perché semplicemente vogliono farlo con i loro tempi e i loro modi. Alcuni returning contributor, come li identifichiamo internamente, ci fanno fare più soldi dei recurring contributor.

Il tema su questo punto è proprio quello di riuscire a inserire questi donatori nel database, in modo da poter comunicare con loro sui diversi canali, riducendo il rischio di perderli.

Il Guardian ha incentrato la sua strategia sulle sue battaglie editoriali – crisi climatica, diritti civili, antipopulismo. Dalla mia prospettiva esterna, le call to action che chiedono la donazione sono davvero molto efficaci. Chi se ne occupa?

Nella nostra redazione ci sono alcune figure dedicate che chiamiamo reader revenue editor. Hanno un background giornalistico e una sensibilità marketing ma non sono mai ‘marchettari’, il che li rende bestie molto rare. Sono quasi dei traduttori simultanei tra i dipartimenti: conoscono bene la linea editoriale e i meccanismi dell’acquisizione. Al momento ne abbiamo quattro: due qui a Londra, uno in Australia e uno in America.

I testi delle maschere sono soggetti ad A/B testing?

Sì, ogni componente del sito è rigorosamente testata: non mettiamo niente online se la sua efficacia non è comprovata. Di solito arriviamo a testare anche 30 o 40 cose diverse prima di trovarne una che faccia veramente il botto.

Un esempio?

Una funzione che si è dimostrata particolarmente efficace è l’article count — quel contatore che indica all’utente quanti articoli ha letto nell’ultimo anno (eccone un esempio). Quando viene mostrato le donazioni quadruplicano, anche se non possiamo utilizzarlo sempre.

Dell’article count abbiamo testato tutto: per esempio abbiamo provato a inserirlo nel titolo o nel testo, con e senza evidenziazione. Ci siamo anche fatti delle domande: è meglio dire all’utente quanti articoli ha letto in un mese o in un anno? A quanto ammonta il numero minimo di articoli perché ti faccia dire “ammazza, quanti ne ho letti gratis”? Ecco, tutto questo è oggetto di test.

Quanto tempo impiega normalmente un A/B test al Guardian?

Difficile darti un’idea generale, però come ti dicevo abbiamo una base di utenti gigantesca, quindi spesso il testing è molto veloce. Per una variazione al blocco in fondo all’articolo basta qualche giorno.

Se invece – per dire – vogliamo testare una call to action indirizzata soltanto ai lettori in Australia, che sono molti meno, possono volerci anche un paio di settimane.

Questo secondo me è uno dei benefici di avere un modello aperto: hai tanti utenti su cui testare e volendo puoi segmentare la tua audience in tantissimi modi diversi.

Qual è la metrica “stella polare” che vi guida nella reader revenue?

È senz’altro il Customer Lifetime Value (CLTV). Noi lo calcoliamo su un periodo che va dai 3 a 5 anni, a seconda delle attività e dei prodotti. Ci aiuta a capire meglio la direzione della nostra crescita.

E quale canale sta convertendo meglio, oggi?

I nostri cavalli di battaglia sono ancora il sito e l’app. Dal Covid in avanti, però, abbiamo visto però una grande ascesa dell’email — dove la conversione è cresciuta dal 3% al 17%, un salto pazzesco.

Qual è la vostra strategia sulle email?

Facciamo due cose: nelle newsletter editoriali inseriamo inviti a donare, e poi inviamo al database delle newsletter dedicate interamente alla richiesta di sostegno economico. La nostra editor-in-chief Katharine Viner ne ha scritte diverse quest’anno, così come alcuni dei nostri migliori giornalisti. E non solo: per COP26 per esempio abbiamo chiesto a George Monbiot, uno dei più grandi esperti di crisi climatica, di scrivere un testo che abbiamo inviato ai potenziali sostenitori. Cerchiamo di scrivere le cose giuste al momento giusto.

Dove vedete tassi di conversione più alti, su app o sito web?

Sull’app, senza ombra di dubbio. Gli utenti dell’app hanno un livello di engagement 3 o 4 volte più alto rispetto a quelli web, è l’audience con la propensity decisamente più alta.

Inoltre la nostra app, pur rimanendo ‘open’, offre anche due prodotti premium (Discover e Live, due sezioni a pagamento, nda). Per tutte queste ragioni gli utenti dell’app hanno anche dei conversion rate molto più alti.

Il pubblico dell’app è molto più ristretto però, giusto?

Giusto, e infatti una delle sfide per il mio team nel 2022 è quella di portare quante più persone possibili dal web mobile all’app.

Vorremmo usare l’on-platform nel mobile web non per chiedere donazioni, ma per costruire una journey che spinga a usare l’app e, solo una volta che gli utenti sono lì, chiedergli di donare.

I numeri che stiamo vedendo ci dicono che trasformare un ‘occasional mobile user’ in un ‘engaged app user’ aumenta il tasso di conversione complessivo: a volte è meglio aspettare un po’ di più, ma arrivare al momento giusto.

Ci risentiamo tra un po’ allora, per sapere come procede. Grazie ancora! 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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