La lezione degli alberi

di | 18 Giugno 2021

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Sabato scorso ho vissuto una delle esperienze più ansiogene della mia carriera: salire su un palco di TED.

Nel talk ho parlato del rapporto tra giornalismo e community, e di come secondo me i media, per riconquistare il sostegno dei lettori, debbano cercare di un costruire un nuovo modello di business basato sulla fiducia e sulla economia della relazione.

{Non mi dilungo oltre: non appena il video sarà online lo condividerò qui.}

Al termine del discorso, mentre le gambe diventavano improvvisamente pesanti e già pensavo allo shot celebrativo di tequila che sarebbe arrivato di lì a poco, il presentatore della serata mi ha girato una domanda dal pubblico.

“Arianna ti chiede: credi che per definire questa ‘economia della relazione’ sia possibile prendere spunto dalle reti di scambio gestite… dalle piante?”

Ti vorrei ringraziare Arianna, chiunque tu sia, perché questa domanda mi ha innescato una serie di riflessioni.

Intanto, facendomi tornare alla mente uno degli articoli più belli che ho letto di recente.

The social life of forestspubblicato dal New York Times Magazine e poi tradotto da Internazionale, è un longform che racconta la carriera e le scoperte di Suzanne Simard, oggi Professoressa di Ecologia Forestale all’università della British Columbia.

Grazie a trent’anni di faticose ricerche, Simard è riuscita a teorizzare e poi verificare qualcosa di straordinario: che nel sottosuolo di un bosco esiste una complessa rete di interscambio che unisce gli alberi, mettendoli in costante comunicazione tra loro. 

Questo fittissimo network, denominato micorriza, è di tipo mutualistico: gli organismi coinvolti – alberi, ma anche funghi – portano avanti il loro ciclo vitale “vivendo a stretto contatto e traendo benefici reciproci”.

Attraverso il network della micorriza le piante si scambiano sostanze nutritive, ma riescono anche ad avvisarsi dell’arrivo di un pericolo incombente, tramite impulsi e segnali. In breve, si parlano.

Questo tessuto sotterraneo, invisibile all’occhio esterno, costituisce la forza della foresta. La rende più resiliente, tenace e sostenibile sul lungo periodo (le prime tracce di micorrize risalgono a 450 milioni di anni fa).

I boschi, insomma, sono società complesse e agiscono come vere e proprie community: poggiano su reti di interscambio orizzontali imperniate su bisogni comuni di sopravvivenza.

Durante la sua intera carriera, Simard ha sempre cercato di dimostrare che “le foreste sono qualcosa di più di una collezione di alberi”

Prima che i suoi studi svelassero la complessità delle community micorriziali, infatti, i boschi erano visti come masse indistinte di individui che passavano il loro tempo a “competere per spazio e risorse”, salvo poi “ignorarsi a vicenda”.

Invece, come ha dimostrato Simard, sono società “vaste e intricate, dove c’è conflitto ma anche negoziazione, reciprocità e persino altruismo”.

Nella prima parte della sua carriera, la biologa è stata spesso sbeffeggiata (qualcuno parlava di pseudoscienza, qualcun altro la accusava di misticismo o addirittura di essere pazza). Nessuno finanziava le sue ricerche.

In pochissimi credevano davvero che ci fosse qualcosa di simile nascosto là sotto, nel terreno. 

E invece.

Quando vuoi entrare in relazione con una community – per raccontarla, per coinvolgerla, oppure per chiederle di sostenere il tuo lavoro – ricordati questa lezione.

Per poter comprendere davvero le dinamiche che regolano un gruppo di persone, non è abbastanza appostarsi sulle cime degli alberi e osservare dall’alto.

È necessario mettersi al livello del terreno e, in qualche caso, iniziare a scavare.

Da sempre, i giornali hanno guardato alle community con condiscendenza – in inglese direi patronizing – a seconda delle necessità dettate dalla propria linea editoriale e dal proprio modello di business.

In alcuni casi, i media hanno trattato le community come veri e propri target culturali, sorvolandole dall’alto e gettandogli addosso pacchetti di informazione, in una sorta di operazione Christmas Drop dell’informazione.

Tuttavia, non sono i media a dover definire i connotati o i codici comunicativi di una community — ma le community stesse.

Non si può pensare di costruire una relazione con un gruppo di individui trattandoli come una massa indistinta, senza conoscere in profondità le micorrize che le collegano e le nutrono (ehi, hai detto “gen z”?).

Come dico a un certo punto nel mio TED, uno dei valori fondanti dell’economia della relazione è “la capacità di identificarsi con i lettori, di assomigliargli, di crescere e cambiare con loro”.

In questo senso, il processo di de-patronizzazione delle community parte anche dal porsi le domande giuste. Eccone quindi tre, secondo me cruciali, ispirate alle azioni di cui ti ho parlato poco fa.

“Identificarsi”. Il contenuto che produciamo è rilevante per la nostra community? Lo stiamo facendo per noi stessi o per loro?

“Assomigliargli”. Le persone che compongono il nostro team sono rappresentative della composizione della community a cui ci rivolgiamo?

Crescere e cambiare con loro”. L’idea che abbiamo della nostra community (di cosa pensa, come si organizza e come comunica) è moderna e aggiornata, oppure è rimasta inchiodata a vecchie convinzioni non più valide?

Ricordati sempre che, per capire come funzionano le micorrize sotto il terreno, bisogna avere pazienza e sporcarsi un po’ le mani.

Perché credo che, in fondo, sia questa una delle missioni fondamentali del giornalismo: dimostrare che la foresta è qualcosa di più di una collezione di alberi.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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