Il tesoro sempreverde

di | 22 Aprile 2022

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Nel mio lavoro da consulente strategico assisto spesso a presentazioni in cui si parla dello stato del digitale, e di come internet pervada in modo sempre più massiccio le nostre vite.

Per cercare di “dimostrare” l’ampiezza di questo trend, in queste presentazioni c’è quasi sempre una slide che trovo uno spreco di attenzione del pubblico in sala.

Hai presente quella diapositiva in cui vengono citati numeri iperbolici che raffigurano quanti milioni di nuovi tweet, video e blog post vengono pubblicati online ogni secondo che passa?

Ecco, tipo questa. Sarà sicuramente capitato anche a te di vedere una slide simile.

Certi numeri – per quanto impressionanti – contribuiscono poco alla conversazione: sono talmente grandi e difficili da comprendere che finiscono per diventare irrilevanti.

Ok, viviamo nell’era del content overload, grazie, lo sappiamo già.

Così, ogni volta che vedo quella slide penso sempre e solo a una cosa: quanti di quei messaggi, post, tweet, reel e contenuti sono davvero rilevanti per qualcuno?

Quanti hanno un vero impatto?

Quanto spreco e quanto rumore ci sono ogni giorno in quello che postiamo, pubblichiamo e fruiamo su internet?

La filiera globale di produzione del contenuto ricorda da vicino la rete idrica italiana. Tanto va perso, tanto altro si inquina: soltanto una piccola parte finisce davvero per dissetare le persone.

Content schiaccia content

La mole di contenuti che editori e creator pubblicano ogni giorno nel web – su social, piattaforme e siti di informazione – è di gran lunga superiore alla nostra capacità, anche come collettività, di fruirli.

Quando va bene molti di questi contenuti si rivelano inutili, e svaniscono senza lasciare alcuna traccia; quando va male, invece, finiscono per inquinare la conversazione.

Da grande sostenitore del “meno, meglio”, trovo la fabbrica del contenuto viziata da un immenso spreco di risorse, che talvolta si traduce in un gioco a somma zero. In cui, però, non è chiaro chi sia il vincitore.

Il content che viene masticato e sputato in pochi istanti è alimentato molto spesso da logiche commerciali dannose, e da processi produttivi costosi e inefficienti figli, in molti casi, di una mentalità del passato.

Ecco: il passato.

La filiera produttiva dell’online, lo sappiamo, non conosce pause: quello che c’era ieri è già vecchio, quello che c’è adesso è destinato a durare il tempo di un refresh.

Content schiaccia content, o meglio, lo rimpiazza. Il vecchio non informa il nuovo, il nuovo non arricchisce il vecchio.

Il concetto del “mattoncino su mattoncino” non appartiene alle logiche della fabbrica del contenuto, salvo alcune rare eccezioni (come, ad esempio, Wikipedia).

Anche i giornali hanno una scarsissima capacità di sfruttare i contenuti già pubblicati e i loro ricchissimi archivi per fornire un servizio migliore all’utente.

Link e correlati sono usati – quando sono usati – più per logiche seo e pubblicitarie che per fornire un effettivo servizio ai lettori. Anche questo è un esempio di disallineamento degli incentivi.

Eppure la costruzione della conoscenza umana è storicamente un processo di building blocks, di stratificazione.

Dobbiamo renderci conto che c’è tanto, tantissimo valore anche nel content dell’altro ieri, di un mese e di due anni fa. Purtroppo di questo media e testate sembrano dimenticarsene spesso.

Il proliferare di contenuti-replica genera tantissimo rumore, quando invece avremmo bisogno del contrario: di curatela, di selezione, di precisione, di rarefazione.

Saranno passati dieci anni da quando Jeff Jarvis scrisse per la prima volta do what you do best, and link to the rest. Quella lezione è rimasta purtroppo largamente inascoltata.

Citare e riutilizzare non sono crimini, tutt’altro — a maggior ragione quando citiamo noi stessi o il lavoro di colleghe e colleghi.

Il problema della sovrapproduzione, degli sprechi e della mancata valorizzazione del content passato non colpisce tuttavia soltanto i giornali.

Le piattaforme di streaming hanno biblioteche da migliaia di titoli, potenzialmente in grado di soddisfare ogni nostro desiderio — ma nelle loro homepage finiscono per riproporci proposte sempre le stesse cose: le hit del momento, le serie di tendenza.

Indipendentemente da quanto sia sofisticato l’algoritmo di personalizzazione di queste gigantesche library, la parte sommersa dell’iceberg resta sempre preponderante.

Sotto il livello dell’acqua dell’oceano dei contenuti ci sono migliaia di tesori da scovare.

Ma come fare, se non ci prendiamo il tempo necessario per riportare questi tesori, di tanto in tanto, in superficie? Se non sviluppiamo una strategia di riaffioramento che funzioni?

Questo problema ha un impatto negativo anche sui modelli di monetizzazione.

Si usa dire che hits drive subs, library retain subs, ed è vero: una scarsa capacità di valorizzazione del contenuto esistente in favore del nuovo influisce sulla capacità di un media di aumentare il tasso di mantenimento dei propri utenti e abbonati.

C’è valore nel sempreverde

Uno degli errori più comuni per editori e distributori, dacché internet esiste, è convincersi che si debba smettere di prendersi cura di un contenuto nel momento in cui viene pubblicato. Da quando, diciamo, “entra nel feed”.

Questa stortura fa sì che moltissimi contenuti finiscano nel dimenticatoio ben prima di riuscire a raggiungere tutto il loro pubblico potenziale.

Per ottimizzare gli sforzi e ridurre gli sprechi, dovremmo invece lavorare di più sui cosiddetti contenuti sempreverdi: quelli che non hanno una data di scadenza e che continuano a essere rilevanti per lettori, spettatori e utenti.

“Qualità costante nel tempo”, diceva un vecchio spot di Telefunken.

Ci sono due accortezze fondamentali per creare contenuti sempreverdi che interessino i fruitori nel lungo termine.

La prima è quella di immaginare la fabbrica del contenuto come una biblioteca accademica, in cui quello che già esiste costituisce la fondazione di quello che verrà poi.

Anche in situazioni in continua evoluzione, come l’invasione dell’Ucraina, è bene pensare a quali building blocks possano essere posizionati nei punti strategici dell’edificio che costituirà il nostro racconto-servizio ai lettori.

La seconda è ridare visibilità al contenuto già esistente tramite aggiornamenti costanti (per assicurarsi che non sia mai scaduto e che rispecchi la conoscenza attuale) e, allo stesso tempo, creare “pacchetti” che rispondano all’evoluzione delle necessità dei fruitori.

Se la manutenzione degli archivi è importante, infatti, avere una strategia di riaffioramento studiata nei minimi dettagli lo è altrettanto: come possiamo riportare in superficie contenuti di valore che non hanno ancora esaurito il loro ciclo di vita?

Uno dei metodi che apprezzo di più è quello di creare un repackaging intelligente, che consiste nell’aggregare contenuti “vecchi” all’interno di contenitori “nuovi”.

Penso a quello che fa Quartz con le sue Field guides, Mubi con le sue liste – finestre aperte sulla storia del cinema -, o Spotify con le playlist basate su generi musicali, mood o momenti della giornata.

È difficile portare le persone a rileggere le Ellissi di due anni fa, ma se re-impacchettassi tutti gli episodi sempreverdi di questa newsletter in un ebook, magari aggiornandoli un po’, questo non avrebbe valore per qualcuno? Probabilmente sì.

Ogni media company, credo, dovrebbe dotarsi di una figura che si occupi di questa attività: pianificare contenuti sempreverdi, pescare il meglio dai propri archivi, manutenere l’esistente e riorganizzare quello che già esiste all’interno di formati che siano utili e risultino “nuovi” per gli utenti.

Se esistesse la figura del past content editor potremmo evitare gran parte degli sprechi che caratterizzino la rete idrica del contenuto.

E se non esistesse, forse, bisognerebbe inventarla.

E tu che ne pensi?

Quanto di quello che produci ha la possibilità di diventare sempreverde, e quanto è destinato a sparire nel tempo di un refresh?

Nell’idea di migliorare la filiera produttiva del contenuto online, una solida strategia di scavo e riaffioramento del passato è fondamentale per fertilizzare il terreno del futuro.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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