Come il Guardian ci convince a donare

di | 10 Dicembre 2021

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Un milione e mezzo di persone dice di sì, se quel qualcosa è il Guardian.

Tra marzo 2020 e marzo 2021 il giornale ha convinto 1.546.000 persone a sostenere economicamente il suo giornalismo.

Un risultato incredibile e unico al mondo, se contiamo che il quotidiano britannico non ha un paywall, ma ha adottato un modello aperto, tenendo gratuiti quasi tutti i suoi contenuti.

Il futuro del giornale sembra oggi molto più sereno rispetto a qualche anno fa, sebbene le difficoltà economiche non siano ancora state risolte del tutto — come dimostrano i 180 licenziamenti dello scorso anno.

Dal centro di Londra, dove ha sede la redazione, il Guardian è riuscito a diventare un giornale globale, ergendosi a baluardo di informazione contro la deriva populista del dibattito politico.

Da Black Lives Matter alla crisi climatica, passando per Brexit e Trump: sotto la guida della direttrice Katharine Viner, il giornale si è posizionato con forza su alcuni temi cruciali degli ultimi anni, diventando una voce credibile anche presso un pubblico più giovane.

“No one edits our editors”, si legge nella pagina dedicata alle donazioni.

Ma gli ottimi risultati economici ottenuti dal modello ‘aperto’ del Guardian non sono solo il frutto di una strategia editoriale azzeccata.

Negli anni, infatti, l’azienda ha investito tantissimo in tecnologia, così come nella costruzione di team di marketing e di prodotto sempre più robusti e organizzati.

A capo di uno di questi team, oggi, c’è l’italiana Giulia Comba, che lavora al Guardian dall’inizio del 2020.

Il ruolo di Comba è Head of Global Acquisition Marketing: tradotto, è la persona che si occupa di far crescere il numero di donatori e sostenitori del Guardian in tutto il mondo, coordinando un team dedicato a questo scopo.

“Potrei definirmi una news junkie, soprattutto se si parla di giornalismo lento”, mi ha raccontato qualche giorno fa.

Comba è arrivata al Guardian dopo sei anni trascorsi in Google a Milano, dove ha ricoperto il ruolo di Strategic Partner Manager per le News.

“Proprio a Google ho iniziato a vedere l’informazione dal punto di vista del business e mi sono innamorata dell’unione delle due cose”.

Che dire, insomma: non poteva esserci ospite migliore per l’ultima Ellissi Meets di questo 2021.

È stata una chiacchierata intensa, lunga e piuttosto tecnica — e super interessante, almeno per me. Spero ti piaccia.

{vb} Giulia, grazie di avere accettato il mio invito. Come ti trovi al Guardian?

{gc} Ciao, grazie a te! Lavorare qui è molto bello: a livello etico il Guardian si allinea perfettamente ai valori in cui credo. L’idea di contribuire alla missione di questo giornale mi fa sentire fiera del mio lavoro.

Il team che coordini è nato da poco, giusto?

Sei mesi fa. Prima c’erano dei team separati: abbiamo deciso di unirci per cercare di abbattere i silos aziendali e favorire la collaborazione tra le figure che presidiano i diversi canali: sito e app, email e off-platform.

Questo ha stravolto in positivo il nostro modo di lavorare. Ora per esempio abbiamo obiettivi di team e non più legati al singolo canale: non si sente più dire “io devo fare 100” o “io devo fare 200”: ora tutti insieme dobbiamo fare 1000.

Al momento il team è composto da una dozzina di persone, che diventeranno quindici nel 2022.

Il Guardian ha adottato un modello aperto, senza paywall. Una scelta rara. Come influisce questo sulle vostre strategie?

Il fatto di essere open ci dà la possibilità di parlare a un pubblico gigantesco e globale: il sito raggiunge circa 50 milioni di browser unici alla settimana e i nostri sostenitori arrivano da 180 paesi diversi. Abbiamo questo grandissimo upper funnel gratuito, che si porta dietro anche una certa quantità di free rider.

Questo ci costringe a rendere più sofisticato il modo in cui cerchiamo di raggiungere le nostre audience. La sfida è cogliere i giusti segnali per capire chi sono le persone già propense a sostenere il Guardian e inviargli dei messaggi convincenti al momento giusto.

Che strumenti avete per calcolare la propensity alla donazione?

Abbiamo sviluppato dei modelli che dialogano con il nostro software di analytics interno, Ophan, e che si basano su un nostro engagement score proprietario.

Interessante. E quali dati vengono analizzati dall’engagement score?

Guarda, è un po’ il nostro Sacro Graal (ride). Qualche anno fa, quando iniziammo a sperimentare, tracciava solo il numero di pagine viste e il tempo attivo di lettura, quello che chiamiamo attention time. Oggi raccoglie circa una trentina di segnali e riesce a osservare come si evolve l’interazione di un utente nel tempo, su quali piattaforme avviene, su quali prodotti e canali. È davvero molto sofisticato.

In futuro, come ben sappiamo, i dati di prima parte diventeranno ancora più importanti. Quali strategie utilizzate oggi per spingere gli utenti anonimi a registrarsi?

Al momento non abbiamo una strategia univoca sul flusso anonymous to known — anche se in azienda siamo tutti concordi sulla necessità di aumentare la nostra base di utenti registrati.

Come primo passo, renderemo necessaria la registrazione su ogni tipo di donazione: al momento infatti è possibile supportare il Guardian senza registrarsi.

Abbiamo iniziato a sperimentare con dei sign-in gate, cioè delle maschere di blocco negli articoli che chiedono all’utente di accedere al sito per continuare a leggere (eccone un esempio).

Non è pericoloso introdurre un elemento di frizione su un modello aperto come il vostro?

Un po’, infatti cerchiamo di spiegare nel modo più chiaro possibile agli utenti che non si tratta di un paywall, né di un primo step verso un paywall. Nonostante questo riceviamo quotidianamente email, telefonate, tweet, lettere minatorie (ride).

L’obiettivo a tendere è che queste call to action vengano mostrate solo agli utenti più attivi e non a tutti. Di solito chi ha un engagement score più elevato capisce meglio perché gli stiamo chiedendo di registrarsi.

Perché sa che quel piccolo gesto, in fondo, permette al giornale di lavorare meglio.

Esatto.

Si può sostenere il Guardian con una donazione ricorrente, oppure sottoscrivendo un abbonamento all’app. In alternativa si può effettuare una donazione libera, una tantum. Questo tipo di sostegno estemporaneo non rappresenta un’occasione persa? Non c’è il rischio di lasciare per strada potenziali sostenitori ricorrenti, e quindi potenziali revenue?

Ottima domanda. La risposta, in breve, è sì: le donazioni una tantum sono una delle maggiori brand challenge che abbiamo in questo momento.

Dall’altro lato, però, la donazione libera ci permette di aprirci a tantissimi mercati globali i cui utenti non sono ancora pronti a sostenerci in modo ricorrente.

E non dimentichiamoci una cosa: succede spesso che questi donatori tornino più volte, perché semplicemente vogliono farlo con i loro tempi e i loro modi. Alcuni returning contributor, come li identifichiamo internamente, ci fanno fare più soldi dei recurring contributor.

Il tema su questo punto è proprio quello di riuscire a inserire questi donatori nel database, in modo da poter comunicare con loro sui diversi canali, riducendo il rischio di perderli.

Il Guardian ha incentrato la sua strategia sulle sue battaglie editoriali – crisi climatica, diritti civili, antipopulismo. Dalla mia prospettiva esterna, le call to action che chiedono la donazione sono davvero molto efficaci. Chi se ne occupa?

Nella nostra redazione ci sono alcune figure dedicate che chiamiamo reader revenue editor. Hanno un background giornalistico e una sensibilità marketing ma non sono mai ‘marchettari’, il che li rende bestie molto rare. Sono quasi dei traduttori simultanei tra i dipartimenti: conoscono bene la linea editoriale e i meccanismi dell’acquisizione. Al momento ne abbiamo quattro: due qui a Londra, uno in Australia e uno in America.

I testi delle maschere sono soggetti ad A/B testing?

Sì, ogni componente del sito è rigorosamente testata: non mettiamo niente online se la sua efficacia non è comprovata. Di solito arriviamo a testare anche 30 o 40 cose diverse prima di trovarne una che faccia veramente il botto.

Un esempio?

Una funzione che si è dimostrata particolarmente efficace è l’article count — quel contatore che indica all’utente quanti articoli ha letto nell’ultimo anno (eccone un esempio). Quando viene mostrato le donazioni quadruplicano, anche se non possiamo utilizzarlo sempre.

Dell’article count abbiamo testato tutto: per esempio abbiamo provato a inserirlo nel titolo o nel testo, con e senza evidenziazione. Ci siamo anche fatti delle domande: è meglio dire all’utente quanti articoli ha letto in un mese o in un anno? A quanto ammonta il numero minimo di articoli perché ti faccia dire “ammazza, quanti ne ho letti gratis”? Ecco, tutto questo è oggetto di test.

Quanto tempo impiega normalmente un A/B test al Guardian?

Difficile darti un’idea generale, però come ti dicevo abbiamo una base di utenti gigantesca, quindi spesso il testing è molto veloce. Per una variazione al blocco in fondo all’articolo basta qualche giorno.

Se invece – per dire – vogliamo testare una call to action indirizzata soltanto ai lettori in Australia, che sono molti meno, possono volerci anche un paio di settimane.

Questo secondo me è uno dei benefici di avere un modello aperto: hai tanti utenti su cui testare e volendo puoi segmentare la tua audience in tantissimi modi diversi.

Qual è la metrica “stella polare” che vi guida nella reader revenue?

È senz’altro il Customer Lifetime Value (CLTV). Noi lo calcoliamo su un periodo che va dai 3 a 5 anni, a seconda delle attività e dei prodotti. Ci aiuta a capire meglio la direzione della nostra crescita.

E quale canale sta convertendo meglio, oggi?

I nostri cavalli di battaglia sono ancora il sito e l’app. Dal Covid in avanti, però, abbiamo visto però una grande ascesa dell’email — dove la conversione è cresciuta dal 3% al 17%, un salto pazzesco.

Qual è la vostra strategia sulle email?

Facciamo due cose: nelle newsletter editoriali inseriamo inviti a donare, e poi inviamo al database delle newsletter dedicate interamente alla richiesta di sostegno economico. La nostra editor-in-chief Katharine Viner ne ha scritte diverse quest’anno, così come alcuni dei nostri migliori giornalisti. E non solo: per COP26 per esempio abbiamo chiesto a George Monbiot, uno dei più grandi esperti di crisi climatica, di scrivere un testo che abbiamo inviato ai potenziali sostenitori. Cerchiamo di scrivere le cose giuste al momento giusto.

Dove vedete tassi di conversione più alti, su app o sito web?

Sull’app, senza ombra di dubbio. Gli utenti dell’app hanno un livello di engagement 3 o 4 volte più alto rispetto a quelli web, è l’audience con la propensity decisamente più alta.

Inoltre la nostra app, pur rimanendo ‘open’, offre anche due prodotti premium (Discover e Live, due sezioni a pagamento, nda). Per tutte queste ragioni gli utenti dell’app hanno anche dei conversion rate molto più alti.

Il pubblico dell’app è molto più ristretto però, giusto?

Giusto, e infatti una delle sfide per il mio team nel 2022 è quella di portare quante più persone possibili dal web mobile all’app.

Vorremmo usare l’on-platform nel mobile web non per chiedere donazioni, ma per costruire una journey che spinga a usare l’app e, solo una volta che gli utenti sono lì, chiedergli di donare.

I numeri che stiamo vedendo ci dicono che trasformare un ‘occasional mobile user’ in un ‘engaged app user’ aumenta il tasso di conversione complessivo: a volte è meglio aspettare un po’ di più, ma arrivare al momento giusto.

Ci risentiamo tra un po’ allora, per sapere come procede. Grazie ancora! 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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