Tutto questo debranding ci sarà utile

di | 15 Ottobre 2021

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Quanto influisce il marchio sulle nostre decisioni di acquisto?

Nel corso dell’ultimo decennio moltissime aziende hanno optato per semplificare la propria identità grafica, adottando loghi più minimali.

Arrivando, nei casi più estremi, a rimuovere il loro nome dalle confezioni dei prodotti e dalle campagne pubblicitarie.

Questo approccio, noto come debranding, non è certo una novità.

Già nel 1995 Nike scelse di cancellare il marchio testuale dallo swoosh, il suo iconico simbolo, sostituendolo con una frase: Just Do It.

Nel 2014, come forse ricorderai, Coca-Cola mise in commercio milioni di bottigliette in cui il brand veniva rimpiazzato dal nome dei suoi clienti, e fu un successo.

In tempi più recenti, nel 2019, Mastercard ridisegnò il suo logo – due cerchi sovrapposti, di colore rosso e arancione – rinunciando al nome dell’azienda.

In cerca di nuovi eroi

Nel mondo del design, il debranding è un approccio sottrattivo, che consiste anche nella scelta di forme più semplici, più definite, più piatte.

A livello strategico, invece, esiste un altro tipo di debranding, che mi interessa da vicino. 

È l’idea che il valore del prodotto possa (finalmente) essere messo in prima posizione, fino a diventare ancora più importante del brand stesso.

Come sai, oggi la crisi di fiducia nelle istituzioni tocca un po’ tutti. Comprese le aziende.

Il brand non è più una garanzia immutabile di qualità: sono le recensioni su Google e le conversazioni su Instagram il principale termometro della fiducia.

A contare è soprattutto la reputazione hic et nunc — che oggi c’è, e domani chissà. Bastano un po’ di tweet per perdere una credibilità conquistata in 120 anni di storia.

{E no, non è necessariamente una cosa negativa.}

Da un lato, i prodotti sono sempre più commoditizzati, e in questo nuovo scenario gli equilibri oscillano con molta più rapidità.

Dall’altro, i consumatori sono sempre meno soggetti al fascino dello storytelling e del marketing.

Qualcuno è davvero convinto che il New York Times venda “verità”, o piuttosto articoli e riviste? 

Dove c’è Barilla c’è “casa”, oppure soltanto un pacco di pasta? 

Apple ci fa davvero “pensare diversamente”?

Per fortuna, siamo diventati sempre più refrattari alle narrazioni pompose, ai grandi immaginari. Sempre più ostili all’autoreferenzialità.

Quante newsletter riceviamo da aziende che parlano solo di loro stesse? Ce ne frega davvero qualcosa?

Oggi per differenziarsi c’è bisogno di aggiungere valore reale nella vita delle persone. 

La forza del marchio non basta per tappare i buchi. I brand non sono più i protagonisti della propria storia.

L’attenzione (sempre più scarsa) degli utenti ci dovrebbe far riflettere su cosa vogliamo comunicare davvero: l’origine delle nostre ‘materie prime’, per esempio, la trasparenza dei nostri processi, o l’impatto positivo che i nostri prodotti possono portare nella vita delle persone.

E questo vale per tutti: ristoranti, compagnie aeree, produttori di automobili, influencer e creator, media e giornali.

Il giornale ‘sbrandizzato’

Anche il giornalismo, il campo di cui mi occupo, beneficerebbe di un po’ di debranding.

Nei media, infatti, la sacralità del marchio ha alimentato per anni un problema di fondo.

La percezione, almeno per chi sta in redazione, di essere parte di qualcosa di intoccabile — un brand totem che avrebbe protetto quel giornale dalle fluttuazioni economiche e dalle evoluzioni del mercato.

Come sappiamo, così non è stato: nemmeno le testate storiche sono risultate immuni al declino.

E quando le cose vanno male, non basta un rebranding (con la erre) per raddrizzarle.

Qualcuno ha davvero pensato che un cambio di formato o di foliazione potesse invertire la rotta di vendite di un quotidiano di carta, rinnovando magicamente l’interesse di lettrici e lettori? 

Le audience hanno smesso da tempo di riporre ciecamente la propria fiducia nei brand d’informazione — abitudine o tradizione sono elementi sempre meno centrali.

Oggi nel giornalismo non abbiamo bisogno di fare più branding, ma di creare meno prodotti di maggior qualità.

Sarebbe bello tornare a un approccio più minimale, in cui ciò che conta davvero sono le qualità intrinseche di ciò che offriamo. In cui il presente conta più del passato.

Un paio di settimane fa Skift, un portale di contenuti B2B rivolto a chi lavora nell’industria dei viaggi e del turismo, ha annunciato il proprio debranding.

Nel ripensare l’architettura e il design del proprio sito, Skift ha dato priorità a due cose: la promozione della propria membership, Skift Pro, e l’esperienza di lettura, che è stata radicalmente ripensata per affaticare il meno possibile gli utenti. Rimuovendo il superfluo.

Soprattutto per aziende come Skift, che si sostengono grazie ai propri abbonati, la qualità del servizio editoriale offerto è il cuore della strategia di sopravvivenza.

In conclusione mi piacerebbe proporti un esercizio, anche se immaginario.

Se per un giorno rimuovessimo completamente il branding – colori, font, loghi, firme – dalle pagine dei quotidiani generalisti, saresti in grado di distinguere una testata dall’altra?

Mentre ci muoviamo da un mondo governato dall’economia dell’attenzione a uno incentrato sull’economia della relazione, cambiano anche gli spazi e i modi in cui i marchi entrano in contatto con gli utenti. 

È finita l’epoca del branding come totem. È ora di concentrarsi di più su quello che conta veramente, il valore del prodotto.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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