Metodi infallibili per fallire

di | 17 Luglio 2020

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Chi mi conosce lo sa già: nel corso degli ultimi dieci anni mi sono occupato di diversi progetti, dall’ideazione al lancio.

L’ho fatto per realtà editoriali, clienti istituzionali, università e a volte, come nel caso di questa newsletter, anche a titolo personale.

Ho cominciato presto: ai tempi di Myspace avevo un blog in cui scrivevo di musica, che poi si è evoluto in un canale youtube in cui chiedevo a piccole band italiane e internazionali che mi piacevano di registrare il video di una versione acustica di un loro brano e di rispondere a qualche domanda.

A ventidue anni, quando mi sono trasferito in Germania, ho lanciato un giornale online per italiani a Berlino, Il Mitte.

Un’esperienza da cui ho imparato tantissimo, ad esempio che il modello di business che hai in mente (la pubblicità online) è lontano anni luce da quello che poi funzionerà (realizzazione di contenuti per terzi e organizzazione di eventi).

Crescendo, non solo non ho messo fine a questa mia particolare malattia—anzi, ho avuto la fortuna di trovare chi mi ha consentito di traformarla in un “lavoro”: tra gli altri Vice, Forbes e Il Sole 24 Ore, per cui ho seguito la nascita di diversi progetti.

Tuttavia, in questa Ellissi un po’ sentimentale, non vorrei parlare di me—quanto piuttosto condividere con te alcuni degli insegnamenti che ho imparato nel corso di questi anni. Spero possano esserti utili.

Utilizza il pensiero laterale

I gradi di complessità di un progetto sono variabili, ma le strategie di gestione, spesso, non cambiano.

Personalmente comincio sempre osservando: i dati, le audience, e i contesti aziendali in cui lavoro, cercando di isolare e codificare i problemi che il prodotto dovrà risolvere in fase di lancio.

Riuscire a identificare ed esporre correttamente i problemi ci avvicina alla loro soluzione: analizzarli da una prospettiva sbagliata (per esempio assumendo il punto di vista degli stakeholder aziendali, piuttosto che degli utenti finali) rischia di complicare enormemente il successivo processo di progettazione.

C’è una frase che ripeto spesso, che non è mia, ma di Edward de Bono: “Non puoi scavare un nuovo buco limitandoti a scavare lo stesso buco più a fondo”.

Questa citazione significa, più o meno, che mantenere un approccio unidirezionale, per quanto solido e sperimentato, non sempre porterà buoni risultati. A volte è infatti necessario cambiare direzione.

De Bono ha coniato il termine lateral thinking, pensiero laterale, come contrapposizione al più comune pensiero verticale.

Se ti affidi al pensiero verticale, tendi a inquadrare il progetto in una cornice che ti è familiare, lasciando fuori tutto quello che non ti sembra essere rilevante o che ti spaventa.

Il pensiero laterale, invece, presuppone che un modello non possa essere ricostruito o migliorato senza l’intervento di fattori esterni alla cornice tradizionale.

Questo tipo di approccio incoraggia ad aprirsi alle influenze esterne, ancor meglio se provocatorie o inusuali, a mescolare i dati, e cercare nuove ipotesi. Se vuoi saperne di più, questo libro fa per te.

Impara l’arte della traduzione

Quando cominci un nuovo progetto entri in contatto con un numero elevato di persone che appartengono a dipartimenti diversi: marketing, tecnologia, editoriale, sales, assistenza clienti, e via dicendo.

Ognuno di questi stakeholder utilizza un proprio linguaggio specifico, figlio delle esperienze lavorative maturate nel corso della carriera, dei colleghi con cui lavora e dei progetti che segue.

Ognuno pensa che il suo linguaggio, così familiare e ‘parlante’, appartenga a un vocabolario conosciuto da tutti. Quasi sempre, tuttavia, non è così.

Col tempo ho imparato che è importante creare fin da subito un nuovo vocabolario, condiviso da tutti i soggetti coinvolti, avviando una specie di lavoro di “traduzione” che possa fornire un terreno comune su cui sviluppare le discussioni.

Se riuscirai a creare questo vocabolario condiviso sarai in grado convertire i desiderata e gli obiettivi in qualcosa di misurabile, oggettivo, e comprensibile a tutti. Se non lo farai, invece, aumenterai il rischio che il prodotto finale, una volta ultimato, generi confusione, delusione o critiche.

Coltiva il tuo metodo

Nel suo studio, Georges Simenon conservava più di 150 rubriche telefoniche, provenienti da diverse parti del mondo.

Ogni volta che lo scrittore belga cominciava a scrivere un nuovo libro passava ore e ore a sfogliarle, nel tentativo di trovare i nomi adatti ai personaggi che si andavano delineando nella sua mente.

Trovare un’identità che risuonasse con le caratteristiche emotive e fisiche dei suoi protagonisti lo aiutava a immaginare e collegare i puntini della storia che stava nascendo.

A volte un progetto in partenza può sembrarti più intricato di un giallo. Per questo hai bisogno di un metodo che sia, in grande o piccola parte, tuo, e che ti aiuti a superare la sindrome da pagina bianca. Non importa quanto stravagante, un metodo ti aiuterà a tracciare il percorso e identificare i vuoti da riempire. 

Pur utilizzando regolarmente gli strumenti gestionali più comuni nelle aziende con cui collaboro, ho un mio rituale basato su uno strumento semplice, i Google Doc.

Per ogni progetto tengo traccia di qualsiasi cosa venga discussa sui tavoli di lavoro, aggiornando questi file al termine di ogni giornata, seguendo un ordine cronologico inverso.

Questi documenti, facilmente navigabili per data o parola chiave, mi permettono di ricostruire i punti ancora aperti e di ricordare il perché di alcune decisioni.

Pensa alla missione, non a definirti

Se leggi Ellissi, è probabile che ti stia occupando di progetti ibridi che vivono all’intersezione tra diversi campi: tecnologia, marketing, editoria, pubblicità, innovazione.

Da quando ho ‘smesso’ di fare il giornalista tout court, lo ammetto, ho sempre faticato a trovare una definizione al mio lavoro.

Sono un ex reporter prestato allo sviluppo digitale? Oppure un project manager? Un product manager, forse? O, termine che recentemente uso spesso, un digital strategist? 

Un po’ ci ho rinunciato; un po’, sono arrivato alla convinzione che non sia così importante dare un nome a quello che faccio.

Forse a definirci è la nostra missione, più che la posizione lavorativa scritta sul nostro biglietto da visita. Focalizziamoci su quella.

È okay non sapere cosa stai facendo

Fatico ad ammetterlo, ma è la verità: non sempre so con esattezza cosa sto facendo.

Il che non vuol dire per forza che stia sbagliando. Nella maggior parte dei casi faccio delle ipotesi e, attraverso il mio lavoro, cerco di valutarne la fondatezza.

Questo avviene perché ogni progetto è un processo di apprendimento, specie quando ci si avventura al di fuori della propria zona di comfort.

Per un breve periodo, quando risiedevo a New York, scrivevo una newsletter in cui parlavo del crescente attivismo anti-Trump tra i lavoratori della Silicon Valley.

La newsletter non è durata molto, ma mi ha permesso di imparare tante cose (errori commessi, soprattutto), grazie anche ai feedback ricevuti. 

Non credo sia così importante che tu sappia sempre cosa stai facendo. Piuttosto, cerca di intercettare con regolarità i segnali che ti arrivano, anche se vanno contro quello in cui credi: è dura vedere le tue ipotesi rivelarsi fallaci, ma è meglio che sia una ipotesi a fallire piuttosto che l’intero progetto.

Il traguardo non esiste

Il canale YouTube, dopo un anno, l’ho abbandonato: mi sembrava che stessi perdendo tempo. 

La newsletter sulla Silicon Valley, non appena rientrato in Italia, l’ho chiusa: parlare di quello che accadeva negli Stati Uniti senza più viverci mi faceva sentire fuori luogo.

Due anni fa ho aperto una società, per cui avevo grandi aspettative: non ha mai emesso nemmeno una fattura.

Nella mia vita ho interrotto una marea di progetti, per motivazioni diverse ma sempre con la stessa, amara sensazione: percepivo questi stop come piccoli fallimenti personali.

Ogni volta, guardando al lavoro fatto, penso che avrei potuto fare meglio, insistere di più, portare il progetto a compimento.

Ma che cosa vuol dire, esattamente, portare un progetto “a compimento”? 

Un po’ come accade con le relazioni finite, il passare del tempo cambia la nostra prospettiva.

Non sempre la compiutezza è qualcosa che possiamo realmente definire o misurare. Se combatti per cercare la perfezione, avrai più paura del fallimento. Così facendo, riduci il tuo potenziale.

Nel suo libro Che sbaglio! (consigliatissima lettura estiva), Erik Kessels scrive una cosa semplice, forse banale, sicuramente vera: “Non è necessariamente un fallimento. È il punto di partenza per qualcos’altro”.

Se ci penso, ognuno di questi fallimenti è stato un tassello che mi ha aiutato a migliorarmi nel progetto successivo.

Un po’ come avviene, se si è fortunati, con le relazioni finite male.

Ok, mi sono dilungato, scusami. Ma c’è un motivo se in questi ultimi giorni sto pensando a tutte queste cose.

Sì, esatto: ho lanciato un nuovo progetto.

Meno di ventiquattro ore fa è nata una nuova rivista digitale, Istmo. In ogni uscita, Istmo cercherà di approfondire due concetti apparentemente opposti, esplorando il non-detto che li unisce, a volte in modo sorprendente. Il tema del primo numero è Futuro Giurassico.

Con Elena ed Alice, le cofondatrici, abbiamo deciso che almeno per questo progetto il nostro obiettivo è non darcene alcuno: preferiamo sbagliare, sperimentare, e imparare.

E tu, che cosa hai imparato in questi ultimi anni dai progetti che hai avviato, abbandonato o portato a compimento?

Fatti sentire, se ti va. Mi trovi sempre qui, a cercare di capire cosa sto facendo. 

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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