Bigger = Better?
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Al lavoro, tutti ci chiedono numeri migliori. Investitori, manager, colleghi. Più pagine viste, più prodotti venduti, più utenti, più clienti, più introiti.
Questa concezione del bigger is better ha radici sistemiche:
Primo, perché il concetto della “crescita a ogni costo” è un pilastro del capitalismo, al punto che l’assenza temporanea di crescita è considerata una crisi;
Secondo, perché i mass media ci hanno instillato l’idea che per “contare qualcosa” sia necessario avere un’influenza sul grande pubblico e sulla massa, pena l’irrilevanza;
Terzo, perché internet e i social ci hanno spinto a credere al mito del “raggiungere tutti”, vendendoci la connessione come una commodity in grado di appianare distanze sociali e interpersonali.
Ma quello del raggiungere chiunque non è solo un modello utopico, in un ecosistema di audience frammentate: è anche dannoso.
Avere un’audience più grande non significa necessariamente vendere di più, allo stesso modo in cui distribuire un magazine in ogni edicola d’Italia non ti garantisce di vendere più copie
Più l’audience è grande, inoltre, più diventa difficile mantenere alto il tasso di attenzione ed engagement.
Pensa a quando ti capita di parlare davanti a una platea o partecipare a un workshop di formazione: è più facile avere una conversazione significativa con dieci persone attorno a un tavolo, oppure con mille persone in un teatro? In quale contesto, nella tua esperienza, si crea uno scambio più produttivo?
Lo stesso vale per i social network: 500 follower attivi, che reagiscono, interagiscono e commentano, valgono molto più di 5000 follower passivi, ectoplasmici. Con un esercito di fantasmi non si vince una guerra.
Quindi no, bigger non equivale sempre a better.
Tieni a mente che raggiungere un’audience di massa non è un obbligo, è una scelta.
Quando qualcuno mi chiede quanto possa crescere l’audience del suo prodotto-sito-profilo social, io propongo un approccio diverso: identifica una nicchia, diventa rilevante, crea una relazione di fiducia.
Anche nel mondo dei media. Come spiega benissimo Jeff Jarvis, mio ex professore alla City University di New York:
Approcciare una community e definire con essa un rapporto dialogico vuol dire mettere al primo posto il valore, non il volume.
{Sulla morte dei mass media Jarvis ha scritto qualche anno fa un libro brillante e ancora attuale, che ti consiglio di leggere}.
Le dimensioni della Terra, in nero, rispetto a quelle di Giove. Sapevi che i pianeti troppo grandi rischiano di essere inabitabili?
Secondo il famoso esperto di marketing Seth Godin, dovremmo piuttosto cercare di identificare la nostra minimum viable audience: una nicchia di affezionati abbastanza grande da rendere sostenibile il nostro business, ma abbastanza piccola da poter prendere parte a un processo di interazione e contaminazione.
È la chiave che ha portato al successo newsletter come TheSkimm o Morning Brew, che oggi contanto milioni di iscritti e tassi di apertura elevati. Quando le persone della tua nicchia diventano ambasciatori del tuo prodotto, allora puoi pensare anche ai numeri.
Secondo Godin, cercare di fare felici tutti non è mai una buona strategia: “When you seek to engage with everyone, you rarely delight anyone”.
Se punti a creare qualcosa che tutti vogliono, devi arrenderti alla mediocrità. Quasi sempre, un approccio di massa ti costringe a sacrificare, almeno in parte, la qualità.
È un po’ come la nostra strategia su Tinder, aggiunge Godin: possiamo fare swipe right su ognuno dei prossimi 100 profili, sperando di incappare in uno o più match; oppure possiamo canalizzare i nostri sforzi cercando partner compatibili, con cui costruire una connessione che duri: valore, non volume.
Ti chiedo: hai già identificato la tua minimum viable audience?
Valerio
Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.
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