Ok, ma ‘sto pricing è giusto?

di | 23 Aprile 2021

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Viviamo in un mondo parecchio strano.

Un mondo in cui c’è chi è disposto a pagare 100.000 dollari all’anno per abbonarsi a un magazine.

Sì, hai capito bene: centomila.

Sto parlando di una cerchia ristrettissima di persone, una élite globale che – sorpresa sorpresa – non frequento abitualmente. E ti dirò, sto bene così.

Eppure ci sono. Esistono. Sono tra noi. 

Sono i membri di Vogue100, l’esclusivo programma di membership su invito lanciato qualche anno fa dalla versione americana della bibbia del fashion di proprietà di Condé Nast: Vogue, appunto.

Per quella stratosferica cifra, i membri di Vogue100 ottengono una serie di benefit esclusivi.

Tra questi ci sono l’accesso a contenuti e report, un canale di conversazione diretto con i top editor di Vogue, e inviti a eventi privati durante le settimane della moda di tutto il mondo.

E, sopratutto, i membri di Vogue100 partecipano alle ambite colazioni mensili organizzate da Anna Wintour nel suo ufficio al One World Trade Center di Manhattan (bello il set di bicchieri, e anche lo yogurt coi cereali non sembra male).

Quella proposta da Condé Nast – più simile all’iscrizione a una loggia massonica o un golf club che a un abbonamento – non è, peraltro, un caso unico.

Anche TIME Magazine ha lanciato un programma di membership carissimo – 20.000 dollari – che permette di entrare in contatto con il network dei cosiddetti Time100, le cento persone più influenti al mondo scelte ogni anno dal magazine americano.

Il programma esiste anche in versione leggera dedicata agli startupper più ambiziosi, a ‘soli’ 1750 dollari l’anno.

A carissimo prezzo

Torniamo subito coi piedi per terra. Ed entriamo nel tema di cui voglio parlarti oggi: quello del subscription pricing.

Se ne è discusso in questi giorni, contestualmente al freschissimo riassetto digitale di Reuters, l’agenzia di stampa britannica che conta 41 milioni di utenti mensili.

La vera notizia è che il nuovo sito di Reuters ha deciso di implementare un paywall, per la prima volta, il cui costo di accesso è decisamente elevato: 34,99 dollari al mese.

La cifra ha sollevato qualche sopracciglio. In media, infatti, gli abbonamenti alle testate online sono meno cari, attorno allo standard dorato da 10 euro al mese.

Perché, dunque, Reuters ha scelto un pricing così alto?

Ci sono due ragioni.

Primo, perché l’agenzia di stampa si considera un servizio B2B, più che B2C. L’offerta è infatti rivolta a un gruppo di professionisti del mondo “news and business”, non al pubblico generalista.

Secondo, perché il prezzo lo fa il mercato: i competitor nell’arena in cui Reuters si posiziona – quella business, per l’appunto – hanno costi simili sul proprio accesso digital: Bloomberg 34.99 euro al mese, il Financial Times 38, The Information 39, l’Economist 28.

Cari? Be’, senza dubbio. Soprattutto se li paragoni ai costi di subscription delle testate generaliste o a quello delle piattaforme di intrattenimento video e audio, da Disney+ a Netflix a Spotify. 

Va sottolineato che gli abbonamenti offerti da Reuters e da testate analoghe si rivolgono soprattutto a un pubblico corporate — cioè, a professionisti che le utilizzano come strumento di lavoro e che solitamente fanno transitare questi costi dalla loro carta di credito aziendale.

Per questo tipo di abbonati quel pricing non è elevato — è parte dei benefit garantiti dalle società per cui lavorano.

Iva Zanicchi è l’Anna Wintour italiana? Discuss.

Ma quindi, che significa ‘caro’, e per chi?

Ognuno di noi investe i propri risparmi come meglio crede, a seconda delle proprie necessità e possibilità.

E percepisce economicità e costosità a seconda del proprio estratto conto, del mercato in cui si muove, delle abitudini che ha, delle sue reti sociali.

Non c’è quindi una risposta univoca. Ed è per questo che il price positioning, nel mondo degli abbonamenti, è un mestiere complicato.

Qual è il giusto prezzo di ingresso? Quanti diversi piani di abbonamento dovrei offrire? Quale modello è più redditizio, quello flat oppure uno basato sul consumo?

Quando mi viene chiesto di immaginare una strategia di pricing per un prodotto editoriale – che sia nuovo o già in commercio poco cambia – utilizzo alcune direttrici fondamentali, che servono da punto di partenza per guidare il ragionamento.

Le condivido con te, <<Il tuo nome>>, sperando possano esserti utili in qualche modo.

→ Non cadere nella trappola del 9,99

Non c’è dubbio che quella del 9,99 sia la soglia psicologica di riferimento del subscription pricing — la “colpa” è di Spotify Premium, di Audible, di Netflix e di altre decine di servizi popolarissimi che usiamo di continuo.

Per questa ragione, “quanto devo costare rispetto a Netflix o Spotify?” è una delle domande che mi viene posta più spesso.

È utile avere un punto di riferimento, certo. Ma corri anche il rischio di farti ingabbiare. 

Ricorda che queste aziende hanno una potenza di fuoco e un modello di business diverso dal tuo: Spotify e Netflix, per esempio, hanno costruito la propria crescita su debiti miliardari.

Insomma, pensaci bene. Tu non sei loro.

→ Progetta il prodotto insieme al suo prezzo

Molte aziende creano prima il prodotto e poi cominciano a ragionare sul prezzo. Altre, invece, adottano una strategia diversa: costruiscono il prodotto in base al prezzo finale.

Attraverso sondaggi, MVP e analisi dei dati, queste società riescono a identificare le opportunità di business con grande precisione, limitando al minimo il rischio di lanciare prodotti fallimentari.

Quest’approccio non vale per tutti, ma può aiutare. Studiare a fondo la propensione al pagamento del proprio pubblico ancor prima di entrare sul mercato è sempre una buona idea. 

Del resto, la willingness to pay è uno dei concetti base degli studi di product-market fit. Se il tema ti interessa, questo libro potrebbe piacerti.

→ Pensa (anche) agli estremi

Esiste una versione ‘leggera’ del tuo prodotto che potrebbe convincere alcuni free rider ad abbonarsi?

Scenario opposto: hai dei super fan che sarebbero disposti a pagarti di più per sentirsi ancora più al centro del progetto e ricevere più cose, se solo ne avessero la possibilità?

Per i primi, puoi creare un’offerta minima dedicata — il prodotto con le sue funzioni essenziali, abbastanza per soddisfare un pubblico poco esigente e che un giorno potrebbe essere pronto per un upgrade. Un esempio di questo modello è Shopify Lite.

Per i secondi, puoi ipotizzare una versione VIP simile al braccialetto all-inclusive dei villaggi turistici. È il caso del modello di Inspirato, un’agenzia di viaggi americana che garantisce viaggi illimitati in posti da sogno per chi sottoscrive il suo abbonamento Pass.

→ La complessità? Solo se c’è un motivo provato

Alcune aziende tendono a offrire un numero eccessivo di piani di abbonamento, pensando che l’avere più opzioni a disposizione possa in qualche modo accontentare le esigenze di tutti.

Tuttavia, nel subscription pricing, la semplicità vince sempre. Se conosci la legge di Hick, sai bene che “l’eccesso di scelta rischia di tramutarsi in non-scelta”. Troppe opzioni possono spaventare.

Suddividere la tua offerta su più scalini ha senso solamente se ci sono dei tipping point (“punti di non-ritorno”) che abbiano un valore tale  per l’utente da giustificare il passaggio a un piano di abbonamento superiore.

Nel caso di Netflix, il fatto che il piano Standard comprenda – rispetto a quello base – l’accesso contemporaneo da due dispositivi e la qualità dei video in alta definizione.

In alternativa puoi prevedere un piano unico, base, più semplice, cui gli utenti più esigenti possono aggiungere dei benefit à la carte.

→ Ricordati della ‘subscription fatigue’

Al momento in cui scrivo ho più di quindici subscription attive tra news, audio, video, cloud e software di lavoro.

Quindici subscription sono troppe subscription? Chissà.

La subscription fatigue – ovvero il limite di saturazione che ciascuno di noi può sostenere economicamente – è soggettivo, ma è sicuramente un fattore da non sottovalutare quando si ragiona sul pricing di un prodotto.

Nel mondo dell’intrattenimento video, tra quelli con più competitor in assoluto, questa tendenza sta raggiungendo una soglia critica.

Secondo uno studio di Deloitte relativo al mercato americano, a gennaio 2020 circa il 20% delle persone con uno o più servizi di streaming attivi aveva effettuato almeno una cancellazione nel corso dell’anno precedente. 

A ottobre 2020, con l’ingresso sul mercato di nuovi player (Disney+ su tutti), quella percentuale si è alzata fino al 46% — segno evidente che l’aumento delle competizione aveva costretto molti utenti a rinunciare a qualcosa.

Se il mercato in cui ti innesti è già molto affollato, può avere senso puntare su un prezzo più basso, almeno per invogliare nuovi utenti a provare il tuo prodotto.

La stessa Disney+, alla data di lancio in USA, aveva optato per un pricing assolutamente concorrenziale (6.99 dollari), salvo poi aumentarlo nel tempo (oggi è 8).

Infine ricorda che il pricing, proprio come il software, “non è mai finito”. Preparati a sperimentare, misurare, e cambiare ancora. 

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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