Il paradosso dei paywall

di | 29 Aprile 2022

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In mezzo al cruscotto di una Audi Q4, un suv elettrico di lusso, c’è un pulsante con scritto “Sync”.

Premendolo, l’automobile regola automaticamente la temperatura tra le diverse aree dell’auto.

C’è solo un problema: funziona solo se paghi.

Lo ha scoperto poche settimane fa un guidatore danese che, dopo avere pigiato il tasto, ha visto comparire un avviso sul computer di bordo: “Questa opzione non è stata acquistata”.

La sua indignazione è finita in un video pubblicato su Reddit. Il suo post, intitolato ironicamente Thank you Audi, ha ricevuto circa 120.000 upvote e quasi 6.000 commenti.

Gli optional a pagamento sulle automobili ci sono sempre stati, certo.

Oggi però questi optional sono sempre più software e sempre meno hardware, il che può dare vita a cortocircuiti curiosi.

Un tempo Audi avrebbe direttamente consegnato all’acquirente una macchina sprovvista di quello specifico pulsante.

Oggi, invece, preferisce fare apparire un messaggio, peraltro piuttosto aggressivo, per risolvere il problema.

Sempre più spesso le funzioni premium di automobili ed elettrodomestici intelligenti saranno legate al loro acquisto o al pagamento di un abbonamento.

Sulle Tesla, per esempio, la guida automatica può essere acquistata per 199 dollari al mese.

Le subscription stanno arrivando anche sulle nostre macchine. E con loro anche i paywall.

L’effetto, direbbe Anna Wiener, può risultare piuttosto uncanny.

Questo airbag per motociclisti smette di funzionare al primo pagamento mancato. Giuro.

Accesso vietato

Trovarsi la strada sbarrata da un paywall non è mai piacevole, non solo quando sei alla guida.

Quante volte hai alzato gli occhi al cielo dopo avere scoperto che un articolo che volevi leggere su un quotidiano online è “riservato agli abbonati”?

Lo so. Succede e succederà sempre più spesso.

In Italia, il 70% delle venti testate di informazione più lette restringe l’accesso ai propri contenuti digitali.

Di queste, circa il 60% propone un modello freemium, il 27% ha un metered paywall, le restanti un mix tra paywall rigidi e membership che offrono contenuti extra bloccati.

Questa proliferazione di muri di pagamento racchiude, per gli editori, la promessa speranza di rendere il proprio business sostenibile nel lungo periodo.

I paywall sono effettivamente un toccasana, almeno per chi li sa sfruttare al meglio. Questo perché gli introiti da subscription sono ricorrenti e quindi prevedibili.

In un settore incerto e volatile come quello dei media e della pubblicità online – sulle cui fluttuazioni è complesso pianificare strategie a lungo termine – i paywall possono rappresentare un’assicurazione sul futuro.

Però, però, però

I paywall sono tutto fuorché perfetti. E ci pongono davanti ad almeno quattro diversi problemi.

Il primo è sociale: la restrizione dell’accesso all’informazione ha delle conseguenze sulla possibilità di avere una cittadinanza equamente informata.

La disparità di ricchezza gioca già un ruolo molto e nell’istruzione dei cittadini: molte risorse educative risultano fuori dalla portata delle persone a basso reddito. I paywall allargano questo divario.

In diverse circostanze, come lo scoppio della pandemia da coronavirus e la guerra in Ucraina, alcuni giornali hanno scelto di abbassare i propri paywall per permettere accesso libero all’informazione. Ma non basta.

Il secondo è politico: i paywall rischiano di aumentare la polarizzazione. Chi paga lo fa per leggere un giornale che rispecchia le sue convinzioni politiche, e questo riduce l’esposizione di quella persona a voci e punti di vista diversi e variegati.

Il terzo è economico: la domanda non cresce quanto l’offerta. In un contesto di incertezza economica – Il 76% degli italiani è preoccupato per i propri risparmi e appena uno su tre pensa che la sua situazione finanziaria migiorerà nel prossimo triennio – la subscription fatigue è sempre più reale.

Questo non avviene solo nel giornalismo. Quanto sta succedendo a Netflix è un gigantesco warning sign per qualunque media company che basa il proprio modello di business sugli abbonamenti online.

Il quarto problema è di marketing, ed è quello che definisco il paradosso dei paywall.

Ti spiego. Soprattutto nei modelli freemium, le maschere di blocco impediscono l’accesso ai contenuti migliori dei giornali — quelli, per semplificare, di maggiore qualità.

Così, proprio quegli articoli (o podcast, newsletter, video…) che rappresenterebbero il migliore volano promozionale per fare sì che il pubblico apprezzi il lavoro di una testata finiscono dietro ai paywall, sacrificando la possibilità di raggiungere un numero più ampio di persone.

Fuori dai muri restano invece i contenuti-commodity, la cui qualità è solitamente inferiore. E tutto il giornalismo a più alto impatto (le esclusive, le inchieste, i reportage) resta chiuso dentro un recinto escludente.

E quindi, i paywall sono dannosi?

Non per forza, anzi. Sono uno strumento utile per costruire community coese e fidelizzate.

Ma bisogna maneggiarli con cura, e non fare l’errore di considerarli la panacea a tutti i mali dell’informazione.

Recentemente, la testata americana Quartz ha deciso di rimuovere il paywall dal proprio sito, una mossa coraggiosa e inaspettata.

Per Zach Seward, il ceo, l’accesso gratuito aiuterà più persone a scoprire i contenuti del giornale.

Inoltre la crescita degli abbonati di Quartz – passati da 17.680 nel 2020 ai 25.000 di oggi – non è più sufficiente per sostenere il lavoro di una redazione numerosa.

Sarà tuttavia ancora possibile sostenere la testata attraverso una membership: chi continua a pagare riceverà due newsletter settimanali esclusive.

Il resto del modello si baserà invece sulla pubblicità, targettizzata su un’ampia banca dati di prima parte (per leggere integralmente qz.com sarà necessario registrarsi).

Altri stanno facendo scelte simili: qualche settimana fa, ben tre giornali kenyani hanno rimosso i propri blocchi, preoccupati dalla “diminuzione delle visite ai propri siti”.

In un recente report del Reuters Institute, emerge anche come il 47% degli editori sia preoccupato che i modelli a subscription possano “super-servire i pubblici più ricchi ed educati, lasciando indietro tutti gli altri”.

È lo stesso concetto espresso in modo colorito da Elon Musk, che ha pungolato il Washington Post e la sua ormai celebre tagline “Democracy Dies in Darkness”.

“Dovrebbero cambiarla in democracy dies behind our paywall”, ha scritto il 29 marzo su Twitter il nuovo proprietario di Twitter.

Polemiche a parte, credo che in fondo la cosa più importante sia cominciare a parlarne — e immaginare come si possa garantire un bilanciamento tra i bisogni degli editori e quelli dei cittadini.

Storicamente le élite sono sempre state le meglio informate, vero, ma con internet abbiamo il potere (e il dovere) di cercare di rendere più equa l’intera filiera.

Avere un’informazione pubblica di alta qualità sarebbe il primo passo per alleviare l’impatto dei paywall sull’accesso alla conoscenza.

C’è sempre l’opzione della membership, che lascia i contenuti aperti chiedendo ai lettori più fidelizzati un generico supporto al progetto: ma funziona solo per realtà medio-piccole o fortemente connotate politicamente, e comunque non è un modello per tutti.

Un’alternativa potrebbe essere l’introduzione di incentivi all’abbonamento che diventano più cospicui al diminuire del reddito (proposte, magari, dai giornali stessi), oppure il varo di agevolazioni fiscali sui prodotti giornalistici che siano destinate ai consumatori.

Ma servirebbe una leadership illuminata tra chi può avviare certe riforme. Da quello che vedo e da quello che sento, non ci siamo nemmeno lontanamente vicini.

 

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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