Civette elettroniche

di | 14 Maggio 2021

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Quando si trasferì a San Francisco, nel 1993, Craig Newmark aveva pochissimi amici in città.

Decise così di affidarsi al web – che utilizzava da poco – per scoprire eventi interessanti nella Bay Area, nel tentativo di allargare il suo giro di conoscenze.

Faticando a trovare qualcosa di utile, però, Newmark decise di fare da solo. 

Iniziò a raccogliere segnalazioni di incontri, aperitivi e conferenze organizzati da persone che lavoravano nell’industria tech, e li mise insieme in un elenco — anzi, in una lista, la lista di Craig, che inviava settimanalmente via email a chiunque desiderasse riceverla.

Fu così, sotto forma di newsletter e con 10 iscritti iniziali, che nacque Craigslist: il portale che, nel giro di un decennio, avrebbe rivoluzionato il mondo dei classifieds, le inserzioni a pagamento.

Offerte di lavoro, affitti, oggetti usati, servizi per la comunità: tutto su Craigslist era a un click di distanza, organizzato in modo semplice e sempre aggiornato. Orizzontale. Peer to peer.

Trasformato in una for-profit nel 1999, Craigslist iniziò subito la sua espansione. Nel 2000 il servizio sbarcò in 9 città americane, tra cui New York e Los Angeles. Due anni dopo, le città erano già 23.

E secondo molti, per i giornali locali quello fu “l’inizio della fine”.

In che senso?

Craigslist – che, si stima, abbia registrato un fatturato di 3 miliardi nel 2018 – è comunemente considerata come uno dei maggiori colpevoli della crisi dei giornali locali, che proprio sul business dei classifieds, altamente remunerativi, avevano costruito parte della loro sostenibilità.

Ora che i lettori avevano a disposizione un’alternativa molto più efficiente, e per giunta gratuita, le pagine di annunci dei quotidiani di Tampa Bay o di Detroit o di Salt Lake City iniziarono a svuotarsi — insieme alle loro casse.

{Ti ricorda qualcosa? Esatto: era il prequel del romanzo tragico che, dieci anni dopo, avrebbe visto protagonisti i giornali, le piattaforme, e la contesa per la pubblicità. Craigslist non era altro che un Facebook ante-litteram.}

Ora: è improprio affermare che Craigslist abbia “ucciso” i giornali locali.

La situazione in cui ci troviamo è figlia di una serie di scelte sbagliate e della lentezza nella transizione a un modello diverso — che per anni non solo non è stato trovato, ma nemmeno cercato.

Comunque, a prescindere dal ruolo di Craigslist, per le casse dei giornali locali americani l’evaporazione del business dei classifieds fu certamente un duro colpo. Il primo di una serie.

Craig Newmark: l’unico imprenditore con la coppola.

Le testate locali che hanno dichiarato bancarotta negli Stati Uniti, dal 2000 a oggi, sono 1800. Dall’inizio della pandemia a oggi si contano altre 70 chiusure. L’emorragia, insomma, non sembra arrestarsi.

Uno scenario che ha dato vita a migliaia di deserti di notizie: città e province che si sono improvvisamente ritrovate senza una copertura giornalistica — senza reporter che presenziassero ai consigli comunali, senza conferenze stampa, senza osservatori indipendenti in grado di tenere traccia dei comportamenti delle amministrazioni e delle istituzioni locali.

Nel frattempo, in America si assiste a una guerra dei fondi di investimento per spolpare quello che resta delle testate.

Anche in Italia, dove pure si segnalano alcune eccezioni positive, la situazione del giornalismo di zona è complicata – e la pandemia non ha aiutato – come viene spiegato bene in questo recente articolo de Il Post.

L’enorme problema con la scomparsa dei giornali locali è che non c’è un ‘unicorno’ in grado di rimpiazzarne il ruolo attivo sul territorio. Quello di essere un watchdog — ma anche di rinsaldare un senso, condiviso, di comunità.

C’è una frase in Losing the News, il report sul declino delle testate locali pubblicato da PEN America nel 2019, che descrive molto bene il problema:

“Con la scomparsa dei giornali, le autorità locali si comportano con minore integrità ed efficienza. Gli illeciti delle aziende procedono senza controllo. Privati delle notizie sul territorio, i cittadini sono meno inclini a votare, meno informati, meno coinvolti a livello politico.”

E come se non bastasse, con l’informazione di zona svaniscono anche le stupende ‘civette‘, le locandine fuori dalle edicole delle nostre città che strillano le notizie più importanti (e più scabrose) ai passanti, forma primigenia e pura di marketing a cui andrebbe onestamente dedicato un padiglione in Biennale.

Giochino per il weekend: sapresti indovinare queste quattro città da una piccola porzione di mappa?

Una newsletter ha “ucciso” i giornali — una newsletter li salverà?

L’importanza del giornalismo locale però non è scomparsa insieme alle testate che se ne occupavano. 

Lo dimostra il trend di cui voglio parlarti oggi: il passaggio dalle local news alle local newsletter.

Almeno negli Stati Uniti, infatti, si stanno moltiplicando i progetti di informazione territoriale che non raggiungono i cittadini nelle edicole, o sui siti, ma attraverso le loro caselle email: tante, piccole, civette elettroniche.

Tra i progetti più interessanti in questo senso ci sono Whereby.us e 6AM City, due media company che raggiungono rispettivamente 5 e 11 città sparse per tutti gli USA (6AM dichiara 425000 iscritti).

Molto bella anche l’idea di Tiny News, un collettivo che spinge sull’interessante concetto di news ownership partecipata, e fornisce ai creator supporto, struttura e soldi.

Queste nuove media company, nate con l’intento di creare nuove oasi di notizie nei deserti inariditi dalla crisi, hanno due caratteristiche comuni: si basano su un’infrastruttura condivisa, riuscendo così ad assorbire i costi di distribuzione e monetizzazione; e sono a metà tra redazioni e piattaforme: permettono ai reporter di autocandidarsi, e forniscono loro mentorship e finanziamenti.

Da questo schema si sottrae Axios Local, un network di sei newsletter locali lanciato da Axios, la testata degli ex Politico Jim VandeHei e Mike Allen, che proprio sulla capacità di comunicare via email ha costruito le sue fortune (e che, a differenza degli esempi precedenti, ha un modello ‘chiuso’).

La crescita delle local newsletter ha sollevato anche l’interesse delle piattaforme.

Substack, per esempio, ha annunciato che sosterrà 30 progetti di newsletter locali attraverso un fondo da 1 milione di euro, elargendo anticipi per il primo anno (ai singoli autori andranno circa 30mila euro più il 15% di ogni abbonamento sottoscritto).

Facebook – che si sta attrezzando con un proprio Substack – farà la stessa cosa, ma attraverso accordi pluriennali e un investimento da 5 milioni totali.

Anche Patch, progetto di citizen journalism, ha da poco lanciato un software per permettere ai suoi iscritti di lanciare una propria newsletter locale, guadagnando da abbonamenti e pubblicità.

Come si spiega tutto questo interesse?

Primo, perché le newsletter sono uno strumento agile: possono essere lanciate in pochi giorni, da chiunque, e senza particolari ostacoli tecnologici.

Secondo, perché sono facili da sostenere: non ci sono costi di startup di avviamento, né il peso economico di una redazione tradizionale.

Terzo, perché si inseriscono in un trend già consolidato: quello della diffusione dei creator e del progressivo “spacchettamento” dei media tradizionali.

Quarto, perché sono uno strumento adatto a contrastare la crisi di fiducia verso i media, dimostratesi in grado di costruire una relazione forte e intima con i lettori.

Ovviamente è impossibile pensare che una newsletter possa rimpiazzare il lavoro di un’intera redazione.

La quantità di esperienza, conoscenze, e attività garantita da un gruppo di professioniste e professionisti dell’informazione che opera insieme su un territorio non può essere paragonata al lavoro di un singolo.

Una giornalista, da sola, non può trovarsi contemporaneamente davanti alla tastiera e girare per questure, municipi, inaugurazioni, conferenze stampa e ospedali.

Per questo, una buona parte di queste newsletter si affida comunque a fonti locali, radio e televisioni, e non fornisce una copertura giornalistica di prima mano.

Ma non sempre, eh: casi come quelli di The MillThe Charlotte Ledger e The Rover dimostrano il contrario.

Ad ogni modo, quando la scelta è tra una newsletter locale e il news desert, non ci sono dubbi su quale sia l’opzione migliore. 

Anche una newsletter, se diventa un presidio continuativo di distribuzione (o costruzione) dell’informazione, può diventare un punto di riferimento importante per una community.

Del resto, come ha sottolineato Margaret Sullivan del Washington Post nel suo consigliatissimo saggio Ghosting the News, l’impatto positivo dell’informazione locale è più ampio di quel che si vede:

“Il giornalismo tiene insieme un territorio intero. Lo aiuta a definirsi. Nutre un senso di comunità. Rappresenta la piazza di un villaggio i cui confini trascendono la filter bubble di Facebook.”

A proposito: dalle tue parti ci sono ancora le civette fuori dalle edicole? E c’è ancora un giornale locale?

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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