Hiyokechi

di | 22 Maggio 2020

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Tra il 1600 e il 1800, la città di Tokyo – che a quel tempo si chiamava Edo – era martoriata da un altissimo numero di incendi, così devastanti da ridurre in cenere interi quartieri.

A causare la diffusione del fuoco contribuivano vari fattori: l’alta densità abitativa, le condizioni meteorologiche, e le scarse condizioni di sicurezza, soprattutto nei quartieri più poveri.

La città cominciò così a costruire gli hiyokechi, grandi piazze vuote dislocate in varie zone che avevano lo scopo di fungere da aree di evacuazione e da frangifiamme, agevolando il contenimento degli incendi.

Nel 1923, dopo il grande terremoto del Kantō che rase al suolo Tokyo, causando 142.000 vittime, a guidare la ricostruzione fu l’ex Sindaco e Ministro degli Interni Shinpei Gotō.

Fu lui a riconvertire alcuni dei vecchi hiyokechi in ‘parchi di sicurezza’, aree-rifugio dove i cittadini potevano trovare riparo nel caso di nuove scosse.

Di giorno aperti alla cittadinanza tra ciliegi in fiore, campi da gioco e fontane, in caso di necessità questi parchi si trasformano in bunker a cielo aperto da cui fronteggiare l’emergenza nelle 72 ore più critiche: i lampioni celano prese usb ad alimentazione solare per caricare telefoni e bici elettriche, i tombini nascondono l’accesso a toilette pubbliche, le panchine si diventano griglie da cucina per cucinare viveri stipati nei magazzini sotterranei.

A proposito di terremoti e strategie d’emergenza, le fondamenta dell’industria dei media e dei giornali poggiano da sempre su una faglia alquanto minacciosa.

Il crollo degli introiti pubblicitari causato dal covid è andato a colpire una struttura già estremamente fragile, con molte testate già in modalità “life support” e alle prese con flussi di cassa sottili quanto il crine di cavallo teso sulla testa del principe Damocle.

Nel bollettino di guerra di questi ultimi dieci giorni si registrano 90 licenziamenti all’Economist, 155 a Vice, 100 a Condé Nast, la chiusura degli uffici di BuzzFeed News in Australia e Londra. Un’emorragia che, temo, non si rimarginerà. 

Zach Seward, ceo di Quartz, ha riassunto la situazione nella lettera di licenziamento recapitata a 80 dipendenti: “Nel nostro business di oggi gli assunti di ieri non valgono più”.

Eppure, qualche anno fa, Quartz sembrava avere trovato la formula per garantire equilibrio tra spese e ricavi. Per anni è stata pioniera di prodotti innovativi, come la sua celebre app Quartz Brief, che distribuiva le news sotto forma di chat, e Atlas, una piattaforma aperta dedicata a grafici e data visualization.

Nel 2018 Quartz è stata acquisita dalla società giapponese Uzabase, cominciando una transizione verso un modello di business basato sulle membership digitali, facendo leva su una customer base di lettori affezionati e un parco di contributor influenti come Richard Branson e Arianna Huffington.

Le cose, però, non sono andate come sperato: gli attuali 17.680 abbonati non bastano a tamponare il crollo degli introiti pubblicitari, ancor meno nell’emergenza attuale. 

Così, pochi giorni fa, Quartz è arrivata alla decisione di licenziare metà dei suoi dipendenti e di chiudere gli uffici di Londra, Washington, San Francisco e Hong Kong, cercando di rifocalizzare il proprio business. Non sarà facile.

A cavarsela non saranno le aziende più robuste o più grandi, né quelle solamente in grado di assorbire il colpo.

A uscire meglio da questa crisi saranno invece le organizzazioni in grado di adattarsi rapidamente alla nuova normalità, capaci di prendere scelte coraggiose (che vadano oltre al taglio dei costi) e di mettere in discussione i modelli che hanno reso il proprio sistema esposto a queste fragilità.

Come dice Nassim Nicholas Taleb, il filosofo libanese autore di uno dei libri più interessanti che abbia letto negli ultimi anni, a prosperare nel caos saranno le organizzazioni antifragili: quelle che, per come sono state progettate e guidate, sanno trarre beneficio da incertezza e volatilità.

Solido, contrariamente a quanto pensiamo, non è il contrario di fragile: di solito, una startup è più antifragile di una grande azienda. Un gatto è più antifragile di una lavatrice. 

Le organizzazioni antifragili sanno adattarsi e ripartire, prosperando quando tutto vacilla e diventando più forti: un po’ come il corpo umano, scrive Taleb, che abituandosi alla somministrazione di piccole dosi di veleno, progressivamente innalza il proprio livello di sopportazione delle tossine.

Il consiglio di Taleb non è quello di cercare di prevedere ossessivamente il prossimo terremoto, quanto piuttosto quello di guardarsi dentro e farsi le domande giuste: “È molto più facile capire se una cosa è fragile, che prevedere il verificarsi di un evento che potrebbe danneggiarla”.

Prendi spunto dalla filosofia agile, che predilige l’approccio adattivo a quello predittivo. Definisci gli obiettivi, ma lasciati ampia libertà sul come raggiungerli; non vincolarti a modelli troppo rigidi, ma cerca di adattarti alle variabili esterne. 

Chi è agile sa accogliere il cambiamento in qualsiasi fase del processo.

Focalizza le tue energie su di te, e cerca di sviluppare la tua antifragilità in tempo per la prossima crisi.

A prosperare non saranno le organizzazioni in grado di progettare i propri hiyokechi, ma quelle abili, dopo, a trasformarle in parchi.
 

Alla prossima Ellissi
Valerio

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