L’informazione in business class

di | 28 Gennaio 2022

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Sono passati quasi tre anni dall’ultima volta che sono salito a bordo di un volo intercontinentale: era il 2019 ed ero in viaggio verso Bishkek, la capitale del Kirghizistan (lacrimuccia).

Pur essendo un volo piuttosto lungo avevo deciso di risparmiare e viaggiare in Economy, anche a costo di dover sopportare qualche vicino rumoroso e di sperimentare in prima persona la cucina del Fyre Festival.

E così, a un certo punto durante il tragitto, ricordo nitidamente di avere guardato con una certa invidia i passeggeri delle altre classi.

C’erano gli avveduti della Premium Economy che non se la passavano poi così male: per un po’ di euro in più avevano ottenuto quello che sembrava un pasto decente, qualche centimetro in più per le gambe e una faccia decisamente più rilassata della mia.

Là in fondo poi, nascosti da una tenda scura, intravedevo i pochi eletti della Business, con i loro piatti gourmet, i bicchieri di champagne e le loro poltrone reclinabili.

Chissà come staranno dormendo bene sui loro cuscini di seta, pensavo, augurandomi che il mio mal di collo non sarebbe durato per tutta la vacanza.

Per le compagnie aeree questi first class travelers sono molto remunerativi. Infatti, sebbene rappresentino solo il 12% dei passeggeri totali, generano fino al 75% dei ricavi.

Una riche niche di persone disposte a pagare un biglietto dieci volte tanto per vivere un’esperienza di volo radicalmente migliore della mia.

{Anche se come sappiamo, nella maggior parte dei casi chi siede là davanti viaggia per affari e non paga di tasca sua: il costo del biglietto è stato generosamente coperto dall’azienda per cui lavora.}

Media di alta classe

Una simile suddivisione in classi si può applicare anche ai giornali digitali.

Su internet la maggior parte di noi viaggia in Economy, scegliendo di informarsi gratuitamente: in questo caso è la nostra attenzione, per quanto frammentata, il prodotto venduto agli inserzionisti.

Chi sceglie di sottoscrivere un abbonamento a una testata online, invece, acquista un biglietto per la Premium Economy: ottiene un’informazione più ampia di quella di base, ma di qualità simile o appena superiore, per una cifra che di solito oscilla tra gli 80 e i 100 euro all’anno.

Esistono poi alcuni progetti giornalistici davvero premium, rivolti a una nicchia di professioniste e professionisti che preferiscono informarsi solo in Business e i cui prezzi possono arrivare anche a centinaia o migliaia di euro. In molti casi, proprio come sugli aerei, a finanziare queste esperienze d’informazione, sono le aziende.

Il capostipite di questo filone è sicuramente Politico, testata lanciata nel 2007 che ha il suo quartier generale in Virginia e un’edizione satellite per l’Europa con base a Bruxelles.

Gli articoli di Politico sono accessibili gratuitamente e ospitano pubblicità (almeno fino a quando il nuovo proprietario, Axel Springer, non deciderà di chiuderli dentro a un paywall. Dovrebbe avvenire entro l’anno). 

Oltre metà dei ricavi di Politico arriva però dalla sua versione a pagamento, che costa migliaia di euro e che si rivolge a quelli che la testata definisce ‘policy-makers’: una élite di persone influenti, i cosiddetti insider o powerbreakers, e per cui l’informazione è uno potente strumento competitivo.

Politico Pro comprende l’accesso a una dashboard che consente a questi abbonati di monitorare le novità e i trend delle industrie di cui si occupano, ricevendo aggiornamenti puntuali su temi di attualità, ma anche legali e normativi.

L’esperienza d’informazione Pro è completamente separata rispetto a quella del sito free, e i giornalisti che scrivono gli articoli di a pagamento compongono una redazione a sé stante. A oggi gli abbonati di Politico sono tra i 30.000 e i 50.000 — abbastanza per generare un business altamente redditizio.

Sulla stessa rotta

Così, oggi sono sempre di più le realtà che cercano di replicare il modello della testata americana.

Axios ha appena lanciato la sua versione Pro, una serie di newsletter dedicate a singole industrie tra cui Fintech, Salute e Retail. L’iscrizione a ognuna costa 600 dollari l’anno.

Punchbowl somiglia molto al ‘primo Politico’ – infatti è stato lanciato da suoi ex giornalisti – ed è molto incentrato sulle sfere di influenza a Washington. Per un anno di abbonamento si pagano 300 dollari.

Ci sono poi il celebre The Information (focus tecnologia e tech policy, dai 400 ai 750 dollari) e il nuovissimo Puck, un network di newsletter che racconta “l’intersezione tra Wall Street, Washington, Silicon Valley & Hollywood”, il cui costo viaggia su 250 dollari l’anno.

La promessa comune a tutte queste testate non è solo quella di far vivere ai loro passeggeri un’esperienza di viaggio migliore, ma di trasportarli da un ‘punto A’ a un ‘punto C’. Farli arrivare, in poche parole, un po’ più in là degli altri.

A costi che però sono proibitivi per la maggior parte di noi. E che, infatti, non vogliono essere per tutti.

I magazine di alta fascia, così come la maggior parte delle testate B2B, hanno sempre cercato di rivolgersi alle nicchie più danarose dell’audienceGo where the money is è un mantra del business 101.

Sono sicuro che ci sarà sempre chi proverà a servire le élite più alto-spendenti. Come ha detto Jay Rosen, professore alla NYU, “i governatori dell’impero resteranno sempre i meglio informati”. 

Il problema con la nascita e la proliferazione di prodotti elitari è che si rischia di creare diverse classi di cittadini, in base alla qualità e alla quantità dell’informazione a loro disposizione. Che le classi, insomma, diventino caste.

Un problema che diventa ancora maggiore se pensiamo che i prodotti elitari non sono solo i ‘Politico’ e gli ‘Information’, quelli destinati alla punta della piramide. Anche i giornali generalisti stanno erigendo sempre più paywall, e per la maggior parte delle famiglie (italiane e non solo) una spesa da 80 o 100 euro l’anno per l’informazione è proibitiva.

Per questo è importante, come ha scritto Brian Morrissey in una recente puntata della sua newsletter, che “i nuovi progetti editoriali non siano solo newsletter rivolte agli insider, alle élite e alle persone con tre case. Un’informazione credibile non dovrebbe essere un bene di lusso”.

Per quanto consideri le subscription come la strada giusta per risollevare le sorti di molte media company, penso che la progressiva paywallizzazione dell’informazione rischi di creare tanti giardini recintati che offrano un giornalismo utile e affidabile soltanto a persone abbienti, colte e inquadrate professionalmente.

La grande alternativa, quella della membership (si paga solo se si vuole e con lo scopo di “sostenere la testata”) funziona bene per una nicchia ristretta di giornali, ma sarà sempre inapplicabile alla maggior parte del mercato.

Come ha scritto Derek Thompson, questa scarcity auto-indotta colpisce tanti settori delle nostre società, non solo il giornalismo. Secondo lui, per contrastare il problema, gli stati dovrebbero preparare una “agenda dell’abbondanza”: abbondanza di soluzioni abitative, di trasporti, di energia, di tamponi per il covid, di fonti d’informazione.

È una visione che purtroppo non risponde a due domande fondamentali, almeno per quanto riguarda i media: chi dovrebbe pagare per tutta questa abbondanza? E che fine faranno i suoi scarti?

Al momento viviamo già in un mondo sovrabbondante di notizie e di contenuti. E mentre i giornali, le compagnie aeree dell’informazione, cercano soluzioni per rimettere i propri conti a posto, non vorrei che il buon giornalismo diventasse sempre di più un volo con pochissimi posti a sedere.

Alla prossima Ellissi
Valerio

Ciao, mi presento. Mi chiamo Valerio Bassan e lavoro come consulente di strategia digitale nel mondo dei media e del giornalismo, per clienti italiani e internazionali. Questo post è tratto da Ellissi, la mia newsletter settimanale. Iscriviti qui.

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